Quella di Paolo Villaggio non è una morte che mette tristezza. E no, non è (solo) questione di tirar fuori la più fatta delle frasi fatte e dire che uno come lui è immortale: che continuerà a farci ridere, che continuerà a farci pensare, che continuerà a farci commuovere. Quella di Paolo Villaggio è una morte che fa ricordare, che fa chiacchierare, che fa riavvolgere un nastro meraviglioso che è il nastro della nostra vita. Immuni dal dolore fisico e personale che è riservato alle morti delle persone care e dei parenti stretti, possiamo permetterci di vivere questo momento di passaggio a modo nostro: vivendo la morte di Paolo Villaggio come la morte del ragionier Ugo Fantozzi.
Era iniziato tutto con un libro, letto di straforo sotto un banco alle scuole medie mentre la professoressa Picasso spiegava italiano, stando attenti a non farsi beccare. Ci piaceva leggere le vicende di Fantozzi, ci piaceva perché ci faceva scompisciare dal ridere ma allo stesso tempo ci piaceva perché noi – un po’ sfigatini, che con le ragazze non ci sapevamo fare, che prendevamo brutti voti e venivamo bersagliati dai bulli – ci riconoscevamo in lui.
E ritrovandoci in questa contraddizione di sensazioni, da un lato la risata e dall’altro il velo di tristezza, avevamo inconsapevolmente capito tutto di Fantozzi. Insieme al libro, poi, c’era il film: anzi i film. I primi tre, sia chiaro, che tutta la trafila di inutili e deprimenti sequel nemmeno li vogliamo considerare. I film che hanno dato un volto ai personaggi e un colore ai luoghi, regalandoci chicche e spunti presto mandati a memoria, perché
erano stati capaci di cambiarci la vita o quantomeno di farcene immaginare una differente. Perché poi era diventato normale rispondere «Com’è umana lei…» quando la prof ti umiliava davanti a tutta la classe leggendo il tuo tema zeppo di strafalcioni. Era diventato normale sognare di vivere un momento, un momento solo della nostra vita anche lontanamente simile a quello vissuto da Fantozzi quando urlò che «La corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca» per prenderci i nostri novantadue minuti di applausi. Perché era diventato normale pensare di reagire ai soprusi prendendo in mano la nostra ideale stecca di biliardo e dire al Diego Catellani di turno «Mi perdoni un attimo, vorrei fare un tiro io adesso» per poi sconfiggerlo davanti ai tuoi colleghi e a tua moglie, per una sera davvero orgogliosa di te. E ogni tanto capita ancora di immaginarci il megadirettore galattico nel suo ufficio, con la poltrona di pelle umana e l’acquario dove nuotano i dipendenti sorteggiati.
La verità è che tutti – tutti, anche i vincenti – siamo stati Fantozzi: e a tutti, in qualche occasione, capita di tornare a esserlo. Tutti abbiamo un Filini, un Calboni e tutti abbiamo o abbiamo avuto la nostra signorina Silvani (a proposito: il messaggio di saluto più bello della giornata di ieri è stato proprio il suo «Fantozzi è stato l’unico uomo che mi abbia veramente amato»). Ecco perché tra cent’anni, quando nessuno di noi sarà qui, si guarderanno ancora i suoi film e ci si sentirà combattuti in quella sensazione strana che ti prende quando ridi ma piangeresti, quando piangi ma rideresti.
Fantozzi ha raccontato l’Italia e gli italiani, ha raccontato di noi e l’ha fatto utilizzando una delle armi più belle che ci siano: l’autoironia, la capacità di prendersi in giro. E allora lasciateci qui, almeno per oggi. A pensare che in qualche modo e da qualche parte Paolo Villaggio e Fabrizio De André – due geni, due giganti, due compagni del nostro passato e del nostro futuro – si siano incontrati e si stiano divertendo come quel pomeriggio in cui chiusi in una stanza buttarono giù quel capolavoro chiamato “Carlo Martello”. E lasciateci qui a salutarlo con un sorriso, ringraziandolo per ogni cosa, e brindando. Con la Prunella Ballor, ovviamente.