Maroni e Salvini hanno ancora qualcosa da dirsi? Esiste ancora una visione, una strategia, su cui convergano? Domande legittime, alla luce degli ultimi fatti. Culminati nella scelta del governatore di nominare Antonio Di Pietro alla presidenza di Pedemontana. Decisione che ha scatenato parecchi malumori, specie nel Carroccio, dove la promozione sul campo dell’ex pm di Mani Pulite è vista come la mossa meno leghista che si possa immaginare. Il governatore ne fa una questione di competenza: rischiando così
di peggiorare la situazione, perché è come dire che nel centrodestra non esistono figure all’altezza. Il fatto, forse, è che le priorità di Salvini e Maroni sono davvero distanti. Il leader cerca di guidare un Carroccio da trincea, battagliero, legato alla nuova destra europea. Il governatore, invece, punta a concludere il mandato nei tempi previsti, accattivandosi, per quanto possibile, simpatie di diversa provenienza, in vista, forse, di un futuro ritorno nella Capitale. A questo si aggiunga un dato. E cioè che, pur essendo colleghi di partito, Maroni e Salvini rappresentano due pianeti diversi. Due generazioni, due Leghe, due registri semantici inconciliabili. Il primo, con la sua cerchia di fedelissimi e l’onnipresente scorta, incarna il potere istituzionale classico. Il secondo, con felpe, i-pad e frasario giovanile, rappresenta una politica più disinvolta, più moderna, più social. Ciò contribuisce a rendere drammatico il dilemma della Lega di Varese. Tra un segretario federale famoso ma poco interessato alle vicissitudini bosine. E uno storico colonnello varesino, sempre meno popolare (vedi il pallido risultato personale alle elezioni) e sempre meno decifrabile.