Ciò che ha fatto male al Varese, più che le persone (certo, c’è persona e persona…), sono state le cose non dette, belle o brutte, che continuando a restare nascoste si sono talmente ingigantite da diventare una valanga. Di leggende popolari al limite delle bufale, di mezze verità riportate di bocca in bocca fino a trasformarsi davvero in una realtà parallela, così chiacchierata e mai smentita, da mangiarsi alla fine la vera realtà. Noi ad Antonio Rosati come a Nicola Laurenza al massimo possiamo rimproverare di avere messo il loro orgoglio davanti a tutto (ma solo gli omini,
e non gli uomini, sono privi di orgoglio), però non rimproveriamo nulla di ciò che sono. Anzi vorremmo averli di fronte entrambi per costringerli a stringersi la mano (se ci anticipano, è meglio) e per ringraziarli d’avere avuto il coraggio – l’incoscienza – di essere stati presidenti della società più snobbata dai concittadini col grano (Sogliano fa storia a sé) e più amata da quelli che non ce l’hanno. Questa intervista, per esempio, non sarà servita a nulla se non avrà avuto la forza dirompente di fare capire a tutti che di scheletri nell’armadio biancorosso, da oggi, non ne esistono più. Che il passato è passato. Che non saranno mai più le parole, ma i fatti a contare. Che la gente ha voglia di vivere il presente, anche fatto di stenti e poche persone purché vere, e trovare una via perché il Varese possa esistere nel futuro. Che di debiti torneremo a parlare solo quando si sarà potuto pagare anche l’ultimo degli steward allo stadio, il primo dei giardinieri, i farmacisti e gli albergatori. Che Rosati ha messo il suo nome nella storia (due promozioni, serie A sfiorata due volte e un playoff fallito per il caso Pesoli, giovani e allenatori record lanciati in A, imbattibilità, centenario ecc.) e anche Laurenza può mettercelo. Che adesso siamo tutti sulla stessa barca, e si rema: chi se ne è andato e chi resta. Chi ha dato o sta dando qualcosa, molto ha ricevuto o presto riceverà. Che Laurenza, o Rosati, in fondo sono la stessa persona. E questa persona si chiama Varese.
Perché se il Varese rischiava di retrocedere o di non iscriversi, bastava una parola sbagliata dall’interno o da fuori per spingerlo all’inferno.
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A parte 2 o 3 squadre senza debiti che costano dai 7 agli 11 milioni e 2 o 3 con debiti fuori misura, tutte le altre hanno un passivo strutturale che per il sistema calcio, ma non nella vita normale, purtroppo è ordinario. Il Varese è tra queste “altre”: Laurenza, l’unico che negli anni si è fatto avanti dal territorio (mi è sempre piaciuto molto, uno sponsor modello), ha preso il club senza che Rosati intascasse un euro ma si è accollato i debiti (già spalmati nei prossimi 5 anni). Nicola è subentrato con un debito che è nella norma per la serie B.
Le cifre non sono queste e sono abbastanza diverse. Ma i 2 milioni da pagare sul territorio, fa male a dirlo, erano così un anno fa e sono gli stessi oggi perché nel calcio, purtroppo, funziona così dalla A alla Lega Pro: all’albergo e al ristorante entrano adesso i soldi di un anno fa, e tra un anno quelli di oggi.
storiella del “pacco” a Laurenza?
Il 5 giugno 2013 il mio accordo con Laurenza era questo: lui entra con il 10/20% delle quote, cifra che aveva previsto essere nelle sue disponibilità, prende confidenza dell’impegno e se vuole fa pure marcia indietro, e io rimango al 49% (avevo già l’ok di Abodi), dandogli un supporto a vari livelli, penso solo alla raccolta pubblicitaria che incassava 1.5 milioni (poi men che dimezzati, ndr). Ma quale “pacco” se io volevo restare nel Varese. E le cifre da vedere in una società, quando la compri, sono quattro o cinque mica cinquemila.
Il 25 giugno davanti al notaio Nicola decide di acquisire tutto, cioè l’83%, non so “ispirato” da chi, cosa e perché.
Perché reputo Nicola Laurenza una persona determinata e libera dal punto di vista umano e imprenditoriale. Perché vedo in lui mani sicure. Vedendo quel che poi è successo (ma per arrivare a rischiare di retrocedere pensavo che si dovesse davvero sbagliare tutto) avrei dovuto essere irremovibile su quel 49%. Per il bene di tutti. Forse non avremmo vissuto un’annata così traumatica. Ecco: se avessi previsto di arrivare a questo punto, mi sarei imposto sul 49%. Avevo anche la scelta dell’autogestione: linea verde e via. Ma tanto aveva ragione Sannino: tutto è scritto.
Sì, ma in maniera assolutamente legittima mi è stato detto che quella clausola non interessava.
Tre: due volte Mauro Milanese e una Enzo Montemurro. Quindi non sono scappato un bel niente: io ero qui, bastava telefonare. E sono ancora qui: il mio numero è lo stesso da anni.
Nei momenti critici dell’iscrizione, quando il Varese sembrava non farcela, ho contattato il sindaco Fontana e Laurenza attraverso un noto professionista varesino.
Se non ce la fai, iscrivo io la squadra sbloccando immediatamente la fidejussione attraverso una banca romana e riprendendomi il “problema-Varese”. Sono però contentissimo che Nicola ce l’abbia fatta senza bisogno di me. E confermo, anche se spero che non serva più visto che lo scoglio mortale e psicologico dell’iscrizione è stato superato (gli altri delle scadenze da rispettare sono scogli minori), che questa volontà c’è ancora.
Anche con lo stesso Laurenza. E con due o tre imprenditori che ho con me, uno ha fatto calcio ad altissimi livelli (Ernesto Pellegrini?), un altro ha appeso quest’anno le scarpette al chiodo. Ovviamente avrei voluto il controllo del club. Pazienza: voglio fare calcio e lo farò (a fine intervista e taccuini chiusi, Rosati chiederà della situazione Pro Patria, aggiungendo: «Ma perché non chiamate Vavassori che è così legato al territorio?», ndr).
Aver visto bistrattare il Varese come società. E sentirmi tirare in ballo quando le cose sono iniziate ad andare male in campo. Perché non facevano il nome di Rosati quando all’inizio la squadra era in zona playoff?
Moralmente mai, perché penso che sia sempre il mio Varese. Ma il mio ciclo è finito nella finale persa con la Sampdoria. Dicono che non volessi andare su: cazzate. Granoche ha ancora stampato il mio calcio nel didietro. Di più: al fischio finale della semifinale del Bentegodi ero convinto di essere già in serie A, l’unico approdo che permette a un piccolo club di autofinanziarsi e mantenersi (vedi Chievo).
Nella gestione virtuosa che si sta aprendo, la sopravvivenza del Varese dipenderà dai rapporti interpersonali che saprà tessere con qualche grande club. Bisogna sfruttare a nostro vantaggio lo loro luce riflessa ma per farlo sarà decisiva la persona che avrà un rapporto con loro.
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Mi convinse a entrare nel Varese quando suo padre aveva già portato le chiavi al sindaco. Ogni squadra di B e A dovrebbe sognare d’avere un Sogliano che lancia giovani, rispolvera giocatori, fa squadra e fa quadrare i conti.
Abbiamo fatto una splendida mangiata di pesce un mese fa a Forte dei Marmi e ci sentiamo una volta alla settimana per parlare di calcio.
Quello che volevo fare il consigliere regionale o l’assessore. Fossi stato eletto, mi sarei dimesso dopo un giorno: ho le mie aziende. Ho solo dato una mano all’amico Maroni.
Basta distruggere, costruiamo. Varese pensa al futuro, Rosati è un nome della tua storia. Non guardiamoci più indietro. Volevo chiarire, non attaccare. E dire che se avevate bisogno, io c’ero. Il Varese non è né di Laurenza, né di Rosati: è vostro e del territorio. E deve fare la B, magari la A, mai la C.
Forza Varese e che la pace sia con te.
Chi la sa lunga ed è nell’ambiente da una vita dice: «Il calcio non finisci mai di conoscerlo». Diffidate da chi dice di conoscerlo.
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