Dopo Matteo Renzi è l’uomo politico del momento. Si tratta di Matteo Salvini, da meno di un anno segretario della Lega Nord. Ha riempito piazza Duomo a Milano, chi era al seguito del lungo corteo ha scritto che tanta gente così a una manifestazione del Carroccio non si era mai vista.
Matteo Salvini arriva da lontano, a vent’anni era già consigliere comunale nella Milano di Marco Formentini, ma nonostante una militanza storica è riuscito in questi dieci mesi di segreteria a ribaltare i pregiudizi che avevano accompagnato la sua candidatura in via Bellerio.
Ricordiamone alcuni. Giamburrasca padano, “Borghezio in calzoni corti”, troppo “giovane per essere l’erede di Bossi”.
Quando si presentava nei talk show e rispondeva digitando la tastiera dell’IPad apriti cielo: «Ma nelle Valli inorridiscono, quelli sono abituati alle urla e alle sagre», i commenti dispregiativi provenienti non solo dagli avversari.
Invece Matteo Salvini ha anche lui cambiato verso al modo di comunicare e di fare politica. Nessuna ospitata tv rifiutata (anche qui una svolta per il suo partito), se hai bisogno di sapere in tempo reale la sua opinione sul tema di quell’ora della giornata il cronista “legologo” va su Facebook e trova la risposta. Un bel copia e incolla, telefonata e fatica risparmiate, e quel che pensa la Lega lo sai subito. Finiti i tempi delle lunghe attese sull’asfalto di via Bellerio o le albe tra i divani rossi del “Mirella” di Ponte di Legno. Altra epoca, anche se Matteo Salvini – giù il cappello – non ha mancato di ricordare in piazza Duomo che se la Lega c’è «é per merito di quest’uomo», quando ha chiamato al microfono il vecchio Senatür.
Svolta tecnologica, ma non solo. Il quarantenne segretario sono almeno quindici anni che ha capito l’importanza dell’informazione, oggi centrale nell’epoca renziana di slide e tweet alle 6 del mattino. Matteo Salvini, ricordiamo, comincia a fare politica ventuno anni fa, 1993, a Palazzo Marino. Dunque da poco maggiorenne ma percepisce la centralità dei media dirigendo il palinsesto di Radio Padania. Un filo diretto con i militanti per capirne gli umori, poi un lancio d’agenzia e il giorno dopo sei sui giornali o la stessa sera sei invitato in una trasmissione televisiva. Prima a fatica perché l’ospite leghista non era gradito, poi con l’avanzata verde la “chiamata” diventava obbligatoria.
Ma tutti sappiamo quanto era difficile convincere un big del Carroccio a dare un’intervista, su ognuno incombeva il macigno del Capo (guai a fargli ombra) e poi il dubbio dell’imboscata.
Ecco, non ancora trentenne il futuro leader, grazie anche alla spregiudicatezza dell’età, se n’è sempre infischiato, anche quando era considerato un baby e sopra di lui c’erano big che ti intimorivano al solo nome di Umberto Bossi, Roberto Maroni, Roberto Calderoli, Giancarlo Giorgetti, Eppure già allora uno spazio se lo ritagliava. Un’eccezione nel ferreo regolamento padano.
Sarebbe però fuorviante e limitativo pensare che se oggi Matteo Salvini vuole scalare il centrodestra questo lo si debba alla comunicazione. Niente di più errato. Egli dentro l’IPad e i comizi ci ha messo quella politica che manca da altre parti. Due parole d’ordine: clandestini e lavoro. In più ha rischiato la pelle parlando agli Italiani, dei loro diritti a vivere in una città sicura e a trovare un posto di lavoro.