“Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente”, sentenziava Mao Tse Tung tra un passo e l’altro della Lunga Marcia. Difficile stabilire se anche oggi l’ottimismo del Grande Timoniere – come veniva chiamato ai tempi del suo massimo fulgore – possa far fiorire elementi di speranza. Di confusione ce n’è a vagonate. Dalla politica all’economia, dalla scienza al senso del pudore, in ogni campo sono franati principi che sembravano granitici. Quello che accade oggi nel Pd era impensabile fino a qualche decennio fa.
Il centralismo democratico era una prassi magari mal digerita, ma certamente condivisa da base e dirigenti. Nelle direzioni e nelle assemblee di partito ci si poteva dividere, discutere, contraddire. Ma una volta approvata la linea, tutti dovevano farla propria e difenderla senza se e senza ma, come si dice adesso. D’altra parte, prima di avventurarsi nelle praterie della politica, chi aspirava a responsabilità nel partito doveva andare a scuola. A Roma, sulla via Appia, a una ventina di chilometri dalla capitale sorgeva la Scuola delle Frattocchie. Da lì uscivano quadri e dirigenti del Partito Comunista perché la politica, nella concezione dei nonni e dei padri degli attuali democrats, non era un passatempo. Non bastava essere animati da buone intenzioni e da voglia di fare. Occorrevano conoscenza della grammatica dei rapporti, dell’arte di ricucire della scienza del compromesso, delle leggi dello Stato. E’ quello che differenzia la “polis” da un’azienda: nella prima chi comanda rende conto solo ai revisori dei conti, nella seconda deve rispondere alla storia e tutti i propri concittadini. Scontentandone alcuni, è normale, ma ascoltando le ragioni di tutti.
Le Frattocchie sono chiuse da un quarto di secolo. All’indomani della svolta della Bolognina, il neonato Pds decise di abolire la vecchia scuola quadri. Sarà un caso, ma da allora la vita interna del partito è stata un continuo ribollire. Democratici di Sinistra prima e Pd poi non hanno smesso di dividersi in correnti, combriccole, cordate, schieramenti. Ora è difficile che i cittadini colgano quale baratro ideologico separi Renzi da Bersani, Orfini da Rossi. Probabilmente ha ragione chi vede il marasma del Partito democratico come una grande partita a scacchi nella quale ogni pedina mira più a non essere mangiata che non a vincere la partita.
Le scissioni sono un po’ come i divorzi: quello che ieri si sopportava in nome dell’armonia di coppia, diventa di colpo un ostacolo alla convivenza. Volano i piatti, le parole grosse, le accuse. E si finisce il più delle volte per avvocati, a spartirsi i brandelli di quello che resta di un matrimonio. A pagarne il prezzo più alto sono in genere i figli, feriti nelle loro certezze, tirati per la giacchetta da questo e quell’altro genitore, privati di quell’esempio familiare che rappresenta buona parte di ciò che siamo e vogliamo essere. E i figli, in questo caso, sono gli elettori.
Ci lamentiamo – in Italia, ma non solo – dell’allontanamento dei cittadini dalla politica. Ci scandalizziamo perché alle urne le defezioni aumentano ad ogni tornata elettorale. Ma se non capisci perché vai a votare, diventa insopportabilmente lunga anche la strada da casa al seggio. Non è un problema da poco. Sono in gioco le fondamenta stesse della democrazia. Negli Usa, in Francia, perfino in Germania prendono piede movimenti che si fondano non su un progetto per il futuro, ma sulla difesa dei propri interessi, che rischiano di allargare le disuguaglianze e accentuare il clima di scontro .
“Grande è la confusione…” si compiaceva Mao e forse non aveva tutti i torti. Le crisi, da sempre, servono a far emergere nuovi traguardi, nuovi sistemi, nuovi valori, perfino nuovi leader. Solo che tutto questo è avvenuto – ce lo ricorda la storia – con passaggi cruenti. Oggi il rischio è che, pur senza spargimenti di sangue, la crudezza della traversata lasci per strada molta gente.
La situazione non è eccellente, caro Mao, è solo preoccupante. Scissione o non scissione.