Sei ire di Dio per un vespro a cannone. Un treno in faccia chiamato Afterhours

Il racconto di Federica Artina del concerto live degli Afterhours

Che tristezza pensare a tutti quelli che sono venuti a conoscenza del nome “Afterhours” solo dopo la comparsa del loro leader sullo scranno televisivo di X Factor. Che gioia infinita, invece, rivederli nel loro ambiente per eccellenza: il palco. Il palco dell’Alcatraz di Milano nello specifico, casa loro più che mai. E che rammarico pensare che il Folfiri o Folfox tour sia già finito, perchè è uno di quegli spettacoli che una volta che l’hai visto non vedi l’ora di poterlo rifare.

Sei ire di Dio. Un leader dall’aura angelica e demoniaca al medesimo tempo. Quasi trent’anni di carriera. Un album che affronta senza mezzi termini il tema meno bello di tutti, quello della morte e del distacco. Eppure ciò che ne esce è un incredibile inno alla vita in tutti i suoi limiti, i suoi eccessi, le sue dinamiche e le sue prospettive. Un grande vespro cantato in cui Manuel Agnelli, decentrato sul palco a sottolineare che gli Afterhours sono un gruppo e non una persona, butta addosso al pubblico tutta la sua autenticità, la sua anima e la sua energia che dice tutto tranne che i 51 anni dichiarati dall’anagrafe. Un treno che passa senza frenare e ti lascia tramortito e spettinato. Un’onda che ti travolge ma ti dà vita, e che vorresti ti travolgesse ancora, ancora ed ancora.

C’è un termine inglese, “rough”, che calza benissimo. Significa rude, grezzo. Sì, perché non è una cerimonia con troppi crismi. I pezzi vengono sparati a cannone uno dietro l’altro, a perdifiato. Si parla pochissimo, si spiega poco o niente. Non ce n’è bisogno. Ci si dicono cose con il linguaggio più sincero e universale che esista: la musica. E così dalle corde del violino di Rodrigo d’Erasmo, del basso di Roberto Dell’Era, dai millemila strumenti di quel genio di Xabier Iriondo fino alle chitarre con le quali Manuel fa l’amore e la guerra per due ore e mezza, è un trionfo di potenza, rumore (nel senso più poetico del “noise”), psichedelia, ipnosi.

Ed è quando ci si tuffa nel passato e tutto il gruppo pesta come un maledetto nel bridge strumentale di Bye Bye Bombay che ti rendi conto che vorresti che quella marea emotiva e sensoriale non finisse mai. E invece un finale arriva, ma è uno di quelli che ti lasciano in sospeso e che non mettono la parola fine a un bel niente: con una versione da pelle d’oca alta cinque centimetri di Quello Che Non C’è gli Afterhours ringraziano tutti per essere venuti e se ne vanno. Così, senza troppi complimenti, come erano arrivati. Viva la verità, viva la vita. E adesso provaci tu ad essere razionale mentre ti gira la testa.