Un’arma. Questa è la musica. Questo è il rap. Una frase, poche parole, dal peso specifico enorme. Che, se la sentissi dal primo super cantante in piedi sul palco, che magari ti piazza dentro anche il desiderio della pace nel mondo, che faresti? Un sorrisino, un cenno di approvazione con la testa e cambieresti distrattamente canale. Retorica inutile per un Gandhi con il new-era che passerebbe inosservata.
Ma a lanciare queste frasi, come fossero granate, con serenità, anzi no, con una bella incazzatura, è Kiave, uno che per provare a cambiare le cose ci mette il nome, la faccia e si sporca pure le mani. E allora resti sintonizzato su quel canale. E cominci a crederci.
Il rapper cosentino, oggi in tour per l’Italia con il socio Gheesa, è uno di quelli che parla con le sue rime, e che fa, con le mani e il cuore. Per solidarietà. Per aiutare chi la sfiga se l’è ritrovata addosso. Per l’integrazione. Perché John Lennon non deve risultare anacronistico. Perché può esistere un mondo «senza razze e distinzioni». Perché ci crede.
L’anno scorso Kiave si è seduto tra alcuni detenuti del carcere di Monza e da quelle intense chiacchierate ci ha tirato fuori un album scritto a 6-7-8 mani insieme ad alcuni di loro. Quest’anno si è mescolato a dei richiedenti asilo. Hanno parlato, li ha ascoltati e insieme hanno scritto sei brani dove storie, amori, avventure, paure e «cazzate» si mescolano in un universo unico. Che lo stesso Kiave, insieme a due di loro, porterà in scena questo giovedì, al Mast di Rho, con il progetto “Onde Sonore – Musica per l’integrazione”, organizzato dalla Cooperativa Sociale Intrecci. Un esperimento unico in Italia. Un progetto bellissimo.
La finalità dell’iniziativa è quella di fare un concerto-festa per sensibilizzare il maggior numero di persone al fenomeno dell’immigrazione. L’hip hop nasce per combattere le discriminazioni, è un mezzo importante per far capire che integrazione è sinonimo di cultura, di civiltà e di evoluzione.
Non è stato facilissimo. Qualche ragazzo parlava italiano, qualcun altro solo inglese ma ce la siamo cavata. Per i pezzi è stata una figata perché ci sono strofe in spagnolo, in inglese o in italiano. E l’accento nigeriano sull’italiano per l’hip hop è davvero super.
Usare la musica, le strofe, i flow e i beat per cercare di imparare un’altra lingua è una bomba, permette di stimolare la parte più creativa della nostra mente e tutto diventa più leggero. C’erano tante lingue che si mescolavano, verbali e musicali, e quest’esperienza, come quella in carcere, mi ha cambiato.
Ci sono sfoghi, amori, religione, paure. Quello che hanno fatto questo ragazzi è stato un vero e proprio aprirsi, un’autopsia. Molti sono entrati anche nel personale quindi non vorrei tradire la confidenza e la fiducia che mi hanno regalato. Aver potuto ascoltare tutto questo è stato un onore, una soddisfazione, una forma di compenso che non ha nulla a che vedere con la materia: sono onoratissimo. Sti cazzi dei sold-out e dei dischi: ci vogliono certo, non lo posso negare, ma il vedere gente che si fida di me perché riesce a vedere al di là dell’artista, liberandosi e aprendosi, non ha prezzo.
Arricchito. Capisco che la gente che segue certe cose o che ha paura dell’immigrazione è gente che non ha nemmeno la forza di immaginare un mondo senza razze e distinzione. Questi sono ragazzi buoni cazzo, hanno una storia e un vissuto anche terribili, hanno passato momenti così drammatici che la gente che acclama Salvini non può neanche sognare. Sono felicissimo di questa esperienza ma dall’altro lato mi è salita la rabbia.
Perché i miei colleghi sono presi dai numeri, da internet e dalla popolarità e stanno perdendo di vista il fatto che l’hip hop nasce per combattere e lottare. Il rap è un’arma. Ed è un controsenso il rap che parla di armi. Lo è esso stesso un’arma, destinata a cambiare le cose e la realtà che ci circonda. C’è chi ha un’arma e la usa per farsi le foto. Io ci provo, non mi lamento stando sul divano, senza espormi. Cerco di sporcarmi le mani per cambiare le cose. I numeri vinceranno sempre ma io ci sono ancora e un ideale non muore finché c’è ancora un folle a sostenerlo.