La prima cosa che ho pensato guardando il film “Civiltà perduta” di James Gray”, ora nelle sale, è che il suo protagonista Percy Fawcett avrebbe avuto un destino non tanto diverso da quello di Ulisse. Questa considerazione non vuole essere uno spoiler del finale, quanto una riflessione su un personaggio veramente esistito, l’esploratore britannico Percy Fawcett, che sparì misteriosamente nelle foreste del Mato Grosso a seguito della sua ennesima spedizione alla ricerca di “Z”, una civiltà antica di cui sosteneva l’esistenza.
“Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”. Queste parole risuonavano nelle gole profonde dell’Inferno della Divina, dove Dante ci mostra la figura di Ulisse in tutto il suo essere umano (troppo umano?).
L’ esploratore è forse la rappresentazione più fedele all’indole umana: l’istinto alla scoperta, la voglia di andare oltre i confini, di superare i limiti. Quella primordiale curiosità che ha fatto muovere i piedi dell’uomo nella storia. Ma quanto è giusto sacrificare e rischiare per saziare il proprio desiderio di conoscenza? Difficile giudicare. ( Ma la tentazione sarà forte guardando il fim).
Il desiderio di rivincita e di riscatto personale, sono le molle che portano l’esploratore Percy Fawcett ad accettare per la prima volta l’incarico della Royal Society e a decidere così di partire per l’Amazzonia, nel cuore del Sudamerica. Durante il viaggio, che lo porterà a percorrere il fiume fino alla sua sorgente, Percy e il suo gruppo, stremato dalle condizioni estreme della giungla, giungeranno in un punto inesplorato. Qui Percy trova dei resti archeologici e delle tracce di umanità e comincia a sospettare dell’esistenza di una civiltà sconosciuta più antica ed evoluta delle altre, che lui chiama Z.
Spinto da una sete insaziabile, nonostante sia riuscito a tornare per miracolo da questa spedizione, Percy decide di fare ritorno in Amazzonia e di proseguire il cammino alla ricerca di Z. Nemmeno sua moglie e i suoi figli, ancora in tenera età, riescono a fermare l’animo inquieto di Percy.
Le spedizioni successive portano l’esploratore sempre più vicino alla scoperta ma sfortunatamente, per un motivo o per l’altro, il gruppo è sempre costretto a tornare indietro e ad interrompere la spedizione.
Ormai abbandonato dal suo gruppo e appesantito dagli anni, dalla fatica e dalla guerra, Percy decide di ritirarsi ad una tranquilla vita famigliare in campagna. Z sembra così essere solo un ricordo lontano, un desiderio da dimenticare… Ma il richiamo della giungla è troppo forte e il destino vuole che il figlio maggiore Jack (e buon sangue non mente) proponga al padre di tornare insieme in Amazzonia per finire quell’utopica ricerca. E’ così che padre e figlio partono per quello che sarà il loro ultimo viaggio: entrambi, infatti, non faranno più ritorno, scomparendo in circostanze misteriose nel cuore del Mato Grosso, forse uccisi dai cannibali.
Il film ha quel sapore d’avventura d’altri tempi. Anche registicamente la narrazione è tradizionale, lenta, con pochi accenni di modernità. Mentre troviamo nel cast un credibilissimo e convincente Robert Pattinson nel ruolo di Henry Costin, l’attore protagonista, Charlie Hunnam, ha forse un po’ meno forza del suo personaggio. Resta moderato nell’esprimere quella voglia disperata di scoperta, quella che ti porta oltre i confini, che non conosce limiti. Forse perché quell’istinto irrefrenabile, quella curiosità maledetta che ha seppellito Ulisse nei gironi infernali,
l’uomo di oggi l’ha un po’ persa. Difficile interpretare qualcosa di cui non si ha più esperienza. L’uomo di oggi, più che esplorare il mondo, si è un po’ perso al suo interno: non tanto per la paura dell’ignoto quanto per la poca fiducia nelle proprie convinzioni. Non ha caso, qualcuno ha detto che il viaggio più estremo è quello che ognuno compie per conoscere sé stesso. E il viaggio di Percy, alla fine, ha inconsciamente un po’ questo scopo. E i sogni di oggi si scontrano con la giungla metropolitana, con i “cannibali” dei social, con l’opinione degli altri. Siamo un po’ tutti Fawcett alla ricerca della nostra Z. Che magari poi non esiste, ma è la sua ricerca che ci tiene vivi. n