Nella vita, come nello sport, non esistono scorciatoie. Chi le prende rischia, se non di fare i conti con chi è preposto a controllarne gli accessi (un controllo che a volte funziona e a volte no), almeno di essere chiamato prima o poi a un rendez-vous con la propria anima. Il concetto vale oggi nel basket per Siena, che in tribunale ha perso ufficialmente un pezzo della sua grandeur rivelatasi di plastica, costruita cioè su un dominio sportivo inquinato da frodi fiscali e norme aggirate.
Da ieri l’almanacco della pallacanestro italiana certifica un buco di anni, quanti i titoli revocati ai biancoverdi fraudolenti: due scudetti, due Coppe Italia e una Supercoppa. Non verranno riassegnati: per la storia quelle stagioni non saranno state giocate, non avranno avuto un padrone, non avranno avuto sfidanti agguerrite, partite epiche, vittorie e sconfitte. Non funziona così. Se la giustizia finalmente compiuta non può o non vuole restituire il maltolto da una società che viveva oltre i propri mezzi, il ricordo e la memoria – soprattutto quella collettiva – seguono altre regole. Granitiche, immodificabili, non aggirabili da nessuno. Ci penseranno quelli che sono passati come protagonisti dalla parte sbagliata, gli impotenti che lottavano – inconsapevoli o quasi – contro i mulini a vento a raccontare la loro incancellabile storia. Ci penserà Varese: le semifinali che fecero trepidare, il tiro di Sakota, l’esodo al Forum per la Coppa Italia e tutte le emozioni dell’annata “Indimenticabile” restano e resteranno. Più forti di chi ha rubato, più forti di chi non restituisce e di un almanacco – ora vuoto – che in alcune di quelle caselle avrebbe dovuto veder scritto, ancora una volta, Varese.