«E la ragazzina era sotto, verso di là, che dormiva anche lei, perché va a scuola. S’è sfondata l’unica finestra e un sasso l’ha schiacciata qua (si mette una mano sul petto) e ci son voluti quattro carabinieri per toglierle il sasso, questo masso enorme…e…e basta».
Sono dieci secondi di parole, in mezzo ai singhiozzi, eppure cariche di lucidità. È lo sforzo immane di un piccolo-grande essere umano. Impossibile non rimanere pietrificati davanti alla dignità
della signora Lia, che in un attimo si è ritrovata senza marito – il Giorgio – e senza la nipote – l’Adriana. O, come la chiama lei nel suo commuovente racconto della notte di sabato, «la ragazzina».
Ed è proprio nel momento in cui parla di Adriana che le sue parole si fanno singhiozzanti, incerte; come qualcuno che ha ben capito quel che è successo, ma il dolore è così tonante che fatica a stare nel petto. Quando la signora Lia si porta la mano sotto il collo, per far vedere dove la nipote è stata colpita dal sasso che l’ha uccisa, pare fin che quella pietra sia caduta e stia cadendo dritta sul suo cuore. E chissà per quanto altro tempo ancora il peso di questa tragedia premerà sul petto della signora Lia.
La ragazzina, già. Lei dormiva perché va a scuola, anche se la domenica si sta a casa. In questo piccolo lapsus c’è dentro probabilmente il nero più nero di questa tragedia: Adriana è giovane, molto giovane, va ancora a scuola. Ci va perché è lì che in genere ci si costruisce un futuro.
Ecco il dolore e la colpa più grandi: essere anziani ed avere ancora un futuro, mentre alla tua nipotina i sogni e le speranze son stati portati via da fango e sassi.
Si può sopravvivere ad un marito, la storia dell’umanità funziona da sempre così. Ma non si può sopravvivere ad un figlio; figuriamoci ad una nipote.
C’è una linea oltre la quale, davvero, il dolore – di primo acchito e non solo – perde qualsiasi possibilità di senso. Dover piangere la morte di una nipote è un’esperienza che scava a fondo, che leva ogni capacità di racconto.
Ma lei, la signora Lia, ci ha provato; di questo ognuno di noi deve esserle grato. Poi, ad un certo punto, pure lei ha desistito: «Ci son voluti quattro carabinieri…», ha detto con la voce gonfia di disperazione e incredulità. Quattro carabinieri. E poi «basta, e basta». Arrivata fin lì, non ce l’ha più fatta e sfido chiunque di noi a spingersi oltre. In quella zona così profonda di dolore, le parole non arrivano. Molto meglio il silenzio.
C’è una foto in prima pagina, sul giornale di ieri: la signora Lia, stretta in uno scialle, con le mani giunte, come a dire «ma è possibile che tutta questa cosa sia successa e sia successa a me?». È una domanda terribile. Non abbiamo una risposta, se mai ne esiste una.
La Lia se ne sta lì, indifesa eppure in piedi, che prova a racchiudere il dolore in quello scialle, a non lasciarlo scappar via, a controllarlo, ché non è cosa dignitosa dimenticarsi le buona creanza e la compostezza. Noi, davanti al giornale, nella nostra fortuna immeritata, possiamo solo ammirarla e dirle che – sarà poca cosa – vorremmo tutti abbracciarla.