«I club sono stati bravi a superare una fase economicamente molto difficile e non solo per il basket». Il finale dell’intervista rilasciata da Frank Vitucci a “La Provincia” fa riflettere.
La pallacanestro nostrana ha battuto la crisi? A prima vista sembrerebbe di no: squadre dalla qualità sempre più uniformata verso il basso, poca competitività a livello continentale (nel cui agone, per ben figurare, serve in primis la sostanza economica), scarso appeal agli occhi di grandi investitori.
Se a questi tre punti si aggiunge una gestione del prodotto rivedibile a livello di esposizione mediatica ed assai migliorabile dal punto di vista del marketing generalmente inteso, il quadro sembrerebbe adombrarsi. C’è un però.
Il pubblico affolla i palazzetti, crescendo di anno in anno. Gli ultimi dati disponibili (agosto 2014) parlano di un +3,8% nel computo degli spettatori presenti rispetto al 2013 ed un +3% per quanto riguarda gli incassi. Se la Serie A sorride, lega Gold e Silver ridono addirittura di gusto: il secondo e terzo campionato italiano stanno facendo registrare un +5,5% se confrontati con la scorsa annata. Altre considerazioni: il PalaWhirpool ha ospitato 4.363 paganti contro Pistoia, l’ignobile Varese-Pistoia; Caserta, ultima in classifica, riempie costantemente il PalaMaggiò; Venezia non ci sta più nel vetusto Taliercio. Da alcuni anni, però, non solo ora che è nelle prime posizioni.
Senza alcuna pretesa di completezza nel riferirle, queste sono circostanze che fanno riflettere. Perché c’è qualcosa che sfugge alle spiegazioni più immediate (per esempio il fatto che la Milano scudettata droghi la media spettatori della serie A, così come una De Longhi Treviso lo faccia in Silver). La pallacanestro italiana, con tutte le sue pecche, rimane sorgente di passione sia laddove è vissuta come una religione, sia nei luoghi in cui si propone come un inedito (Trento, ad esempio). Cattura, non è imbastardita da quel tubo catodico che è stata la vera sciagura di un calcio che, invece, langue in contenitori sempre meno pieni. Uno dei mali conclamati, la poca esposizione televisiva, diventa così il toccasana delle arene: il tifoso vuole godere del gesto tecnico dal vivo, in palazzetti per di più ancora vergini (o quasi) da alcune storture comportamentali proprie degli stadi. Poi c’è anche il lavoro dei club, bravi – come dice Vitucci – a non perdere la rotta pur brancolando nel buio. Ma il motore di tutto è una passione che, nel suo essere di nicchia, continua ad accendersi focosa.