Trent’anni dopo il delitto di Macchi arriva il processo per l’omicidio della giovane scout: ma c’é una perizia che mette in dubbio l’architettura accusatoria. ll gup di Varese, Anna Azzena, ha rinviato a giudizio Stefano Binda, arrestato lo scorso gennaio con l’accusa di aver ucciso la studentessa di Varese Lidia Macchi nel gennaio 1987. Il giudice per l’udienza preliminare ha letto il dispositivo intorno alle 18 di ieri dopo oltre tre ore di camera di consiglio: Binda,
arrivato in udienza alle 9.30 di ieri mattina, avrebbe ascoltato in silenzio la lettura del dispositivo senza battere ciglio, abbassando soltanto lo sguardo per un istante. Il processo si aprirà il prossimo 12 aprile. Il sostituto pg di Milano Carmen Manfredda, che aveva riaperto l’inchiesta sfociata nell’arresto di Binda lo scorso 15 gennaio, nei giorni scorsi aveva chiuso le indagini preliminari. E ieri, in aula, c’è stato un colpo di scena. L’arresto di Binda si fonda soprattutto sulla testimonianza di Patrizia Bianchi, amica sia dell’imputato che di Lidia Macchi nel gennaio 1987, quando il delitto fu consumato. Bianchi dichiarò che era di Binda la grafia con la quale fu scritta “In morte di un’amica”, lettera anonima recapitata a casa Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali della ragazza. Bianchi, quasi 30 anni dopo i fatti, riconobbe la scrittura, secondo lei appartenente a Binda, guardando la copia dattiloscopica della lettera mostrata in Tv da Quarto Grado che del delitto si stava occupando. «Mi colpiva la grafia – aveva spiegato agli inquirenti – in quanto da subito mi sembrava familiare (…) così andavo a riprendere le cartoline che mi aveva spedito in quegli anni Stefano (Binda) e con sorpresa notavo una grande somiglianza nella grafia». La perizia calligrafica ha poi dato evidenza scientifica – dicono gli investigatori – alle impressioni della donna. Una perizia di parte, eseguita su mandato della procura generale di Milano, certifica questa affermazione. E anche Patrizia Binda, sorella di Stefano, intercettata mentre guarda la Tv dichiara: “ma quella è la scrittura di Stefano”. Ma ieri Patrizia Esposito e Sergio Martelli, difensore del quarantanovenne che ha sempre vissuto a Brebbia, hanno depositato una seconda perizia, ugualmente di parte, che asserisce che quella non è la grafia dell’imputato. Non solo: Binda non avrebbe scritto nemmeno l’intestazione sulla busta né sarebbe l’autore del famoso appunto, trovato scritto su un foglio conservato tra le Smemoranda del quarantanovenne datate 1987 e sequestrate a casa dell’imputato (Binda vive con la madre) nel quale è scritto: «Stefano è un assassino». Il processo, dunque, sarà combattuto a suon di perizie, con quella dell’accusa che assume a tratti i toni di una perizia psicologica che non ha valore di priva in sede processuale. I difensori di Binda non hanno chiesto riti alternativi: nessun abbreviato con sconto di pena, il quarantanovenne comparirà davanti alla Corte d’Assise presieduta da Orazio Muscato. Il 5 gennaio 1987 Lidia Macchi era uscita di casa per andare a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio. Non era mai più tornata indietro. Per giorni interi, genitori, amici, compagni di Cl e forze dell’ordine l’avevano cercata ovunque. Poi il suo corpo era stato trovato in un boschetto di Cittiglio, al Sass Pinì. Binda – stando all’imputazione – l’avrebbe sorpresa nel parcheggio dell’ospedale e sarebbe salito sulla sua macchina. Insieme avrebbero raggiunto il boschetto dove poi lei è stata trovata cadavere. Le ferite sul corpo (soprattutto schiena e gamba), dicono che Lidia è stata accoltellata anche mentre cercava di scappare. Le perizie aggiungono che sarebbe morta per le ferite e per “asfissia” e dopo una lunga “agonia” in una “notte di gelo”.