Morire bruciati a Londra è una tragedia. Non una vergogna

L’editoriale di Francesco Caielli

Gloria Trevisan è la ragazza italiana dispersa (e le speranze che sia sopravvissuta sono praticamente nulle) nel terribile rogo della Grenfell Tower di Londra. I giornali, ieri, hanno scritto tanto di Gloria. Hanno raccontato la sua drammatica telefonata alla madre fatta mentre si rendeva conto che ormai c’era poco da fare («Ciao mamma, grazie di tutto») e poi hanno scritto anche che lei, Gloria, era una studentessa modello. Che si era laureata con 110 e lode e che “era dovuta andare a Londra perché in Italia non trovava un posto di lavoro decente”.

Come se la colpa della sua morte sia da attribuire alla famigerata fuga di cervelli, come a dire: “se fosse rimasta qui sarebbe ancora viva e invece…” Ma facciamola finita, per favore. Di pensare che andare a Londra a lavorare – a Londra, mica a Bujumbura (capitale del Burundi) – sia una sconfitta per le nuove generazioni. Di inorridire di fronte a un mondo finalmente aperto, in cui i giovani possono vivere e lavorare ovunque senza per questo pensare che il paese da cui vengono sia per forza una merda. Un mondo in cui i cervelli non fuggono ma viaggiano, si spostano (una notizia: tanti ragazzi stranieri si trasferiscono per lavoro in Italia, sapete?). Un mondo che, ne siamo certi, Gloria amava. Perché fatto di ragazzi come lei.