La forza delle parole per demolire i pregiudizi

Un grandioso Celestini punta il dito contro le storture della società. E lascia uno spiraglio

«Ha visto signora? Ha visto quello che ho visto anch’io? È accaduto un miracolo: una vecchia, una signora con la testa impicciata e un cieco hanno salvato la vita a un barbone».

Partiamo da un presupposto: Ascanio Celestini non può essere raccontato. Quindi mettetevi l’anima in pace, da queste righe non potrete scoprire la forza che emana sul palco, la genialità dei suoi testi, la semplicità e l’ironia con cui discerne in un monologo, durante il quale non sembra prendere fiato, e fa trattenere il fiato anche agli spettatori, su questioni fondamentali come Dio, la Creazione, il destino dell’umanità, la vita di un barbone africano licenziato perché nero e senza diritti, la vita di una prostituta, di una donna che ha perso il figlio in un incidente e nello stesso incidente ha perso anche la sanità mentale (la punteggiatura in questa frase è stata omessa per rendere, seppur in maniera sbiadita, l’idea del suo flusso di parole).

Lo spettacolo Laika, che ha chiuso la stagione della rassegna Gocce, diretta da Adriano Gallina, apre la mente e ammazza gli stereotipi.

E lo fa con uno stratagemma semplice eppure geniale. Partiamo dal barbone, che era un facchino, che è stato licenziato ingiustamente perché oggi i diritti nel mondo del lavoro sono retaggio da libri di storia del Novecento. Lo spettatore, indipendentemente dalle proprie idee politiche, si immedesima, o se non si immedesima, prova comunque compassione.

Celestini sorvola in maniera geniale, non lascia intendere subito la nazionalità dell’uomo. La lascia trasparire, ma non la urla esplicitamente, se non a storia inoltrata.

Quando magari qualcuno, se avesse saputo che il barbone era africano fin dall’inizio, non avrebbe provato la stessa compassione.

Lo stesso fa con la prostituta. La “sveste” dell’immagine di oggetto e la riveste della sua immagine di donna, narra la sua storia. La rende umana e non oggetto sessuale.

Mostra come su quella strada ci sia finita per colpa di una società gonfia di pregiudizi, una società malata, malata di odio, di rabbia, di pressapochismo e di ignoranza.

L’ignoranza che è il nuovo modus vivendi dell’italiano medio. E purtroppo anche dell’italiano mediamente istruito. Questo è il teatro di Celestini. Un teatro civile, che sveglia le coscienze. E che, male che vada, fa dormire meno serenamente le coscienze più offuscate.

Laika, che dà il nome allo spettacolo, era la cagnetta che i sovietici mandarono in orbita. Scelsero lei, ci spiega Celestini, perché era una cagnetta da strada, e quindi era più forte. Come la prostituta è una donna da strada, e quindi è più forte.

«Le cagnette domestiche tutte curate non avrebbero resistito un secondo, lei invece ha fatto il giro della Terra».

L’attore parla, racconta, osserva il mondo dal suo monolocale di 35 metri quadrati calpestabili, «ma cosa vuol dire calpestabili?», e riflettere con Pietro.

L’attore è un Gesù Cristo che è tornato sulla Terra, ma non per salvare l’umanità, questa volta la osserva. E non c’è molto di positivo da osservare.

O forse no, qualcosa c’è. La vita, la lotta per resistere e rimanere su questo mondo traendone qualcosa di buono.

Come alla fine qualcosa avviene. Quel miracolo. I deboli che salvano una persona ancora più debole, prendendo a loro volta mazzate dalle guardie, che non sono i deboli, ma traggono piacere dall’uso della violenza.

Celestini in questi casi non usa metafore. Non addolcisce. Ti “bombarda” con le parole che descrivono il mondo così com’è. Con ironia, che ti fa sorridere. Anche ridere. Ma non cancella la durezza dell’esistenza.