Studi di settore sotto accusa Con la crisi più margine di errore

Busto Arsizio – Gli studi di settore, mai come in questo momento di difficoltà, sono distanti dalla realtà economica delle aziende. Lo dicono le imprese, le associazioni di categoria e lo confermano gli esperti: «Gli studi di settore esistono da molti anni – spiega Ermanno Werthhammer, presidente dell’Ordine dei Dottori Commercialisti ed esperti contabili di Busto Arsizio – in un momento in cui era giusto farli, per dare una certa equità ad anomalie reddituali evidenti». Poi però le cose sono cambiate: la crisi ha rimescolati i numeri «e gli studi di settore si stanno lentamente affinando, ma presentano in questo momento molte criticità» aggiunge Werthhammer.

Criticità dovute alla distanza tra la realtà dei fatti, che ha ridotto i volumi, i ricavi e i fatturati, e la staticità dei modelli: «Oggi le cose sono diverse, i negozi non vendono più come un tempo, le imprese non producono più gli stessi volumi e gli studi di settore non reggono, perché non rappresentano le strategie aziendali, non rappresentano la vita dell’impresa».
Qualche dato: nel 2011 i soggetti non congrui ai parametri indicati dagli studi di settore sono risultati il 26%.

Un’azienda su quattro. Un valore analogo a quello dell’anno precedente e simile a quello del 2012. Ma una differenza si sta evidenziando anno dopo anno: il valore medio dello scostamento tra i ricavi attesi dallo studio di settore e quelli effettivamente emersi dal fatturato dichiarato dalle imprese è stato nel 2011 pari al 29,84%, con un aumento quasi del 10% rispetto al dato del 2010, quando era il 20%. In altre parole la differenza tra la vita economica reale delle imprese e quella imposta dagli studi è sempre più accentuata e lontana dai parametri rigidi: conferma che la crisi negli ultimi due anni ha avuto effetti dirompenti.

«Dietro ad ogni impresa non ci sono solo numeri – sottolinea Werthhammer – ma c’è la vita dell’imprenditore, c’è una storia, ci sono strategie». C’è la volontà di provarci: ci sono imprenditori, artigiani che seppur in perdita mantengono al lavoro i propri collaboratori pur di non lasciarli andare in attesa di una ripresa. Una scelta che fa sballare i numeri previsti dagli Studi che per ogni dipendente presuppongono certi ricavi, e dunque che porta ad un probabile accertamento «che crea tensione e rende difficile l’attività» spiega il presidente. Rispondere e dimostrare la buona fede si può «ma la norma è complicata, anche in questo caso rigida».
Quella sugli studi, ribadisce Werthhaammer «non è una norma sbagliata in sé in un’ottica di equità fiscale, ma in questo momento, strumenti di questo genere, come anche il redditometro, diventano norme generaliste che impongono la rigidità di parametri non rispondenti alla realtà di ogni singola azienda». Il lavoro oggi è difficilmente incasellabile in un modello standard «mentre in questo momento – conclude Werthhaammer – bisognerebbe far respirare di più le imprese».
Silvia Bottelli

p.rossetti

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