Era nel 2006 quando nella mia nuova dimensione di vita vidi e pensai la prima volta lo sci paralimpico. Al mio fianco come sempre papà Maurino, direzione Sestriere dove si svolgevano le gare di sci alpino delle Paralimpiadi di Torino.
Ricordo bene quella mattina. Le sensazioni erano le più strane e contrastanti. Da una parte la curiosità e l’entusiasmo, dall’altra il pensiero martellante di avvicinarmi all’impossibile che finiva con un «va beh, andiamo a vedere questi poveri “scassati”
come me se davvero sciano».
Era un po’ come nei cartoni animati. Sulla spalla destra l’angioletto, sulla sinistra il diavoletto ed entrambi cercano di portarti dalla loro parte. Una volta arrivato e sistemato in tribuna, tutto ha preso un’altra piega: altro che scassati! Davanti a me sfrecciavano veri atleti diversi solo per il fatto di avere super attributi. L’adrenalina mi esplose alta come non m’era mai successo prima. L’unico pensiero nella mia testa restò: voglio provarci anch’io. L’euforia non mi fece dimenticare di essere tetraplegico ma, chissenefrega! Spazzato via il diavoletto, mi rimase solo l’angelo che poco dopo me ne presentò un altro in carne e d’ossa, incredibilmente varesino come me che mi lanciò una scommessa: imparare a sciare in autonomia in tre anni! Weekend di levatacce, cadute, lividi e dolori ovunque. Ma da un’uscita sulla neve all’altra non c’era il tempo di perdersi in lamenti. Intanto rapporto istruttore-allievo cresceva trasformandosi a poco a poco in una fortissima amicizia, di più: avevo trovato un fratello. Non smetterò mai di ringraziare Nicola Busata per avermi riportato sulla neve dove sciavo in piedi, con lo stesso sorriso, sentendo quella stessa aria sulla faccia.