Si era nei primi anni 90. Ancona era una sorridente cittadina di mare. Come adesso. Io, invece, ero un poco sorridente giovane anconetano in cerca di una collocazione nel pianeta terra. Ancora universitario, mi barcamenavo tra lavoretti saltuari e saltuarie incursione nel mondo dell’arte. Qualsiasi tipo di arte. Avevo a che fare col teatro, col video e soprattutto con la musica. Dopo aver frequentato per un po’ di tempo (circa sei anni) il conservatorio privato della città,
il Pergolesi, avevo optato per una decisa virata verso il rock e avevo cominciato, da autodidatta, a strimpellare la chitarra. Ma non è dei miei progressi da chitarrista che voglio parlarvi. Visto che mi piaceva suonare in una band, ma che ero da troppo poco entrato in possesso dei minimi rudimenti delle sei corde, inizia a cantare, complice una buona intonazione, una discreta presenza di scena e soprattutto una notevole faccia di culo. È noto che tutti si vergognano a mettersi davanti a un microfono, perché per cantare, si sa, bisogna avere le palle. Io le palle non è che ce le avessi particolarmente, né una voce strepitosa, ma mi andava di far parte di una band e non avevo abbastanza soldi per comperarmi una batteria (lo strumento che di solito suonano quelli che non sanno suonare altro). Così mi ritrovai a fare un provino per una band di musicisti locali. Tutti musicisti piuttosto quotati in città, a dire il vero, gente un po’ più grande di me e con molta più esperienza di me. Come nelle favole che si rispettino feci il mio provino e venni preso subito. Sarà anche che cominciavo ad avere questi lunghi capelli neri e ricci, particolare non da poco se si deve cantare in una band rock. Perché questa era una delle caratteristiche della band in cui entrai come cantante, si trattava di una band rock, i Nuanda, nome mutuato da un personaggio del film L’Attimo fuggente. Un personaggio che nel film fa decisamente una brutta fine, segno che avremmo dovuto interpretare sin da subito. Ma quando si è giovani, si sa, tutto sembra bello, lo cantava anche Vasco nel brano Liberi liberi, e noi eravamo giovani. Altra caratteristica della band era che era una cover band, cioè una band che suonava solo canzoni di altri. Nello specifico si trattava di una cover band di Vasco Rossi, e quindi era una band che faceva solo canzoni tratte dal repertorio di Vasco Rossi. Ancora di più nello specifico era una cover band degli album Fronte del palco e Live in San Siro, caratteristica, questa, piuttosto rara anche nel mondo delle cover band.
Potremmo dire che eravamo una band di feticisti, il cui scopo nel pianeta terra era riprodurre il più fedelmente possibile le canzoni contenute in questi due album, suonate esattamente alla stessa maniera. In due parole: pura follia.
E la follia non era data solo dal fatto che per un anno intero ci siamo incaponiti a suonare sempre le stesse canzoni, c’è gente che lo fa tutta la vita (si pensi alle band di liscio o a gente come Tony Dallara, tanto per fare un nome caro a Vasco, ancora legata a successi ottenuti negli anni 60), ma dal fatto che se io ero stato preso non tanto per la mia voce (in realtà piuttosto tendente all’acuto e decisamente non roca o biascicata) il resto della band sembrava più un gruppo di impiegati alla banca d’Italia in libera uscita che un gruppo di scafati rocker. Tutti con tagli di capelli che andavano dal cotonato estremo al pettinato con riga da una parte. Tutti in giacca, o quantomeno in polo infilata dentro i pantaloni. Banditi i jeans e le t-shirt. Molti con gli occhiali. Anzi, no. Se ben ricordo solo il sassofonista, Andrea Avoni, aveva gli occhiali, ma poco cambia, è come se tutti li avessero. Almeno nella mia memoria. Una memoria che associa automaticamente, manco fosse il cane di Pavlov, le serate del giovedì e della domenica di un intero anno solare, a prove improbabili durante le quali suonavamo e risuonavamo le canzoni di questi due album senza riuscire a trovare l’alchimia della band di Vasco.
E dire che neanche la band di Vasco, a ben vedere, era la band di Vasco, almeno non la solita. Ricordiamolo, la Steve Rogers Band aveva voltato le spalle al nostro, e con lei se n’era andato anche il produttore Guido Elmi. Vasco per la prima volta nella sua carriera si trovava ad affrontare gli stadi senza i suoi amici di sempre, e lo fece alla grandissima. Con una band che vedeva in formazione un mostro della chitarra come Andrea Braido, una sorta di Steve Vai italico, velocissimo e indiavolato. Con lui un manipolo di mostri, a partire da Daniele Tedeschi alla batteria, passando da Paul Martinez al basso, a Davide Devoti alla chitarra d’accompagnamento, a Andrea Innesto al sassofono per arrivare a Alberto Rocchetti alle tastiere, vero e proprio folletto da palco.
Hai voglia di provare a tenere il loro passo. Loro non saranno stati una band rodata ma sapevano esattamente cosa fare. Basta ascoltarsi la scaletta per rimanere a bocca aperta. Magari c’avrà messo del suo anche il pubblico degli stadi, perché non dimentichiamoci che i due album sono, come il precedente Va bene, va bene così, registrati dal vivo. E soprattutto non dimentichiamoci che il secondo è dal vivo a San Siro, luogo caro a Vasco che proprio in occasione di quel concerto, per la prima volta si trovò a suonare in uno spazio così grande.
Insomma, possiamo tirare in ballo tutte le scusanti che si vogliono, ma a noi di suonare Fronte del palco e Live in San Siro proprio non veniva. O almeno non veniva uguale. Perché poi anche la nostra era una band di tutto rispetto. Andrea Picciola alla batteria, Luca Gusella alla chitarra elettrica, Simone Carotti al basso, Andrea Avoni al sassofono, Claudio Gianni e Gigi Cortese alle tastiere e io al canto. Insomma, per Ancona eravamo vicini al top, ma Vasco e la sua band erano un’altra cosa.
Forse anche per questo la nostra avventura finì come finì. Ancora lo ricordo, e, come potete immaginarvi questo ricordo ha per colonna sonora una delle canzoni di Vasco contenute in quei due album live, una qualsiasi, non ha importanza. L’ultima prova che i Nuanda fecero, nella saletta che la parrocchia di San Carlo Borromeo ci aveva messo a disposizione sembrò un remake della scena finale del film The Commitments. Da una parte c’era uno dei due tastieristi, Gigi, che teneva fermo il batterista e la sua fidanzata (mai portare le ragazze in sala prove, fidatevi di chi c’è passato), dall’altra Claudio, la seconda tastiera, che cercava di frenare gli animi e soprattutto le mani di Luca, il chitarrista. Nel mezzo tutti gli altri, a spingere e insultare. Alla fine il gruppo si sciolse, seguendo le orme del Nuanda dell’Attimo fuggente. Non ho più visto nessuno di quei ragazzi, e non abito neanche più in quella città, la mia città natale. Qualche anno dopo, quando ero diventato uno scrittore e un critico musicale, ho conosciuto Vasco, l’ho incontrato un po’ di volte e, in qualche modo, sono diventato il suo biografo ufficiale. Con i libri a lui dedicati ho in parte comparto la casa nella quale abito con la mia famiglia. Io ho quasi cinquant’anni, Vasco ne compie oggi sessantacinque.
Il tempo passa.
Non passa invece una faccenda: odio questi due album, almeno adesso sapete perché.
scrittore e critico musicale, autore di quattro libri su Vasco Rossi.