La foto pubblicata dalla “Provincia di Varese” che ritrae due figuri intenti a darsele di santa ragione nel corso di una rissa scoppiata in piazza Repubblica deve fare riflettere tutta Varese. Non tanto e non solo perché questo accade in una città che vorremmo ordinata, pulita, permeata di senso civico, quasi un po’ svizzera nella sua ordinaria tranquillità.
Che desidereremmo senza gente che si bastona in strada, senza risse che lascino malconci i protagonisti, attoniti e spaventati gli spettatori. Ci deve far riflettere perché tutto questo accade nel cuore del centro abitato, in un luogo – la piazza – che nei secoli è sempre stato deputato a punto di incontro, non di scontro, area di ritrovo, di interscambio tra le persone. Dall’agorà greca al foro romano, gli spazi aperti nel nucleo dell’abitato hanno sempre avuto un ruolo sociale.
Un obiettivo che i progettisti dell’attuale piazza Repubblica avevano inseguito a modo loro con quegli enormi gradoni bifronte che dovevano diventare, nell’ipotesi accademica, scalini di un nuovo anfiteatro dove ritrovarsi, applaudire, riposarsi. Nel tempo sono diventati, al contrario, covo di sbandati, tana di spacciatori, rifugio di emarginati.
Il perché è presto detto: una piazza, per essere tale, ha bisogno che i lati che la delimitano siano vivi. Lo spazio centrale diventa a quel punto una propaggine delle case, dei negozi, degli esercizi commerciali che lo delimitano.
Se gli spazi confinano con il nulla, diventano essi stessi nulla, territori da conquistare, radure dove scorrazzare, bivaccare, battersi se è il caso. Ed è quello che accade in piazza Repubblica, soprattutto da quando via Spinelli è stata chiusa al traffico allargando in questo modo a dismisura le aree al riparo da occhi indiscreti.
Ma la chiusura di via Spinelli è solo l’ultima goccia in un vaso già al limite della tracimazione. Sulla piazza, separata a causa del traffico dalle vetrine che prolungano via Bizzozero e via Manzoni, si allunga lo squallore della ex caserma, con un senso di abbandono e di sfascio che mortificano il centro di Varese. L’abito non fa il monaco, è vero, ma nessuno si presenterebbe mai a un appuntamento importante con i vestiti sudici e rattoppati.
Max Lodi da tempo chiede da queste colonne che si faccia anche a Varese ciò che è stato fatto altrove: un telo artistico (perfino pubblicitario, se la concessione al mercato servisse ad accelerarne la realizzazione) almeno per nascondere l’agonia terminale di quell’edificio. Nessuna risposta, tutto tace.
Siamo ancora, invece, al balletto dei progetti, alla roulette del dove-metto-il-teatro, allo sport nazionale dello scaricabarile (colpa della soprintendenza, dei soldi che non ci sono, dei patti di stabilità, del buco dell’ozono e via incolpando).
Dimenticandosi, ad esempio, del progetto Sinecure, sbandierato nell’estate del 2010 come una delle eccellenze prealpine e ribadito nel corso di osannanti conferenze stampa con tanto di rendering e comunicati congiunti con il gruppo Finmeccanica: videocamere intelligenti in grado di osservare e trasmettere in tempo reale alle forze dell’ordine quello che succedeva in piazza Repubblica. Ma non solo: telecamere capaci anche di orientarsi automaticamente verso i cittadini in difficoltà che chiedessero, via cellulare, un controllo in diretta perché impauriti, inseguiti, importunati, aggrediti.
Dissero entusiasti allora i nostri amministratori che entro ottobre si sarebbe dato il via al progetto e che perfino il sindaco di Roma (allora era Alemanno) aveva già chiamato Palazzo Estense perché interessato a vedere come funzionava il nuovo sistema.
Non sappiamo se Alemanno, passato nel frattempo a miglior vita politica, conserva intatta a quattro anni di distanza la stessa curiosità. Noi almeno una ce l’abbiamo: ci piacerebbe sapere perché a Varese, tra i dire e il fare le cose che si annunciano, c’è sempre di mezzo il mare. Anzi: un oceano.
Marco Dal Fior
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