«Si può accompagnare un cammello al pozzo, ma non lo si può obbligare a bere». Stefano Coppa, mai così solo in mezzo alla tempesta, ha scelto un proverbio per commentare una delle giornate più drammatiche nella storia della Pallacanestro Varese. «Abbiamo fatto di tutto – ha aggiunto – per convincere Pozzecco a rimanere, a ritornare sui suoi passi: ma è stato irremovibile. Se ne voleva andare, non potevamo fare altro che accettare la sua scelta».
Il punto, in attesa di ascoltare le parole di tutti e capire quel che succederà, è un altro: non si doveva arrivare qui. Oggi abbiamo perso tutti. Ha perso la città di Varese, che ora conosce il rumore sinistro che fa un sogno quando si infrange e che ci aveva creduto e adesso crede che sia tutto un incubo. Ha perso la Pallacanestro Varese, che si è ritrovata nel fango proprio quando aveva deciso di fare il salto più
lungo: e forse non era pronta a un passo così importante, forse era ancora troppo piccola e acerba. Ha perso Gianmarco Pozzecco, che in un gesto seppur onorevole e inusuale come quello delle dimissioni ha scagliato un macigno sulla sua carriera da allenatore, per sempre macchiata. Ha perso Stefano Coppa, che ha preso in mano le redini della società nell’anno in cui tutto sembrava troppo facile per essere vero e che ora si trova a gestire una situazione esplosiva e devastante: in meno di una settimana hanno sbattuto la porta due bandiere della Pallacanestro Varese, e da una cosa del genere non ci si rialza. Abbiamo perso noi, che sulla ruota di Pozzecco avevamo giocato i risparmi di una vita convinti che ci avrebbe cambiato la vita.
Attilio Caja salverà Varese dalla retrocessione (basterà vincere tre partite), ma ieri è morto un progetto: e questo è molto peggio di una retrocessione dalla quale abbiamo già dimostrato di saperci risollevare. Perché a noi questo sembra davvero il punto più basso raggiunto da questa società negli ultimi trent’anni. Peggio del 1992 perché allora almeno si sapeva che c’erano i soldi e che si sarebbe tornati grandi. Peggio del 2008 perché allora non c’era mai stata l’illusione di qualcosa di bello. Quest’anno abbiamo vissuto un’estate a mille all’ora, quest’anno abbiamo vissuto il derby con Cantù e sembrava di essere tornati in paradiso: sembrano passati vent’anni da quella sera. No: non ce la ricordiamo un’altra sera così cupa, nera e buia. Un’altra serata senza certezze per il futuro: cosa inventarsi per convincere la gente a tornare a fare l’abbonamento tra qualche mese?
Già, la gente. Ci è rimasto solo quello, ci è rimasta la rabbia di chi ci aveva creduto e ora vorrebbe stracciare la tessera e restituirla al mittente, ci è rimasto il loro amore per Varese. No: non ci salverà Caja e nemmeno la dirigenza, non ci salveranno Diawara e neppure Kangur (suvvia, che gliene frega ai giocatori di quello che accade sopra le loro teste?). Ci salverà la gente che tiferà un po’ più forte. Non per qualcuno ma per qualcosa. Per Varese. E come dice Guccini: a culo tutto il resto.