Bruxelles, 1 nov. (Apcom) – Da Bruxelles, le ‘chances’ di Massimo D’Alema di essere nominato Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) dell’Ue appaiono buone, dopo il sostaziale ‘via libera’ di venerdì da parte di Palazzo Chigi, ma a condizione che il ‘gran rifiuto’ a questa stessa candidatura opposto in modo netto dal ministro degli Esteri britannico, David Miliband, sia sincero e portato fino in fondo, senza ripensamenti.
In altri termini, il rischio maggiore per D’Alema, nei prossimi giorni, è che il governo di Londra riconosca il fallimento del suo tentativo di promuovere Tony Blair come presidente ‘stabile’ del Consiglio europeo (l’altro nuovo posto creato dal Trattato UE di Lisbona), e decida di puntare invece su Miliband come Alto rappresentante per la Pesc. In questo caso, il Pse sarebbe chiamato a scegliere chi dei due appoggiare, e per salvarne l’unità uno dei contendenti probabimente di ritirerebbe. E fra un ministro degli Esteri in carica in un grande paese e un ex, senza neanche più ruoli di partito importanti, la battaglia sarebbe impari.
Senza Miliband, D’Alema avrebbe invece buone probabilità di essere favorito nel Pse rispetto a tutti gli altri candidati socialisti: dal rumeno Adrian Severin (europarlamentare, ex ministro degli Esteri), al tedesco Frank-Walter Steinmeier, alla francese Elisabeth Guigou, ex ministro della Giustizia e degli Affari europei, all’ex cancelliere austriaco Alfred Gusenbauer. E’ vero che i francesi potrebbero candidare anche l’attuale ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, che però non farebbe l’unanimità nel Pse a causa della sua partecipazione alla ‘corte’
di Sarkozy. Anche Hubert Vedrine, ministro degli Esteri di Lionel Jospin e altro possibile candidato francese, avrebbe sicuramente meno simpatie di D’Alema fra i socialisti europei, trattandosi di un ‘tecnico’ (era portavoce del Presidente Mitterrand) e non di un uomo di partito.
D’Alema, invece, ha sempre frequentato la ‘casa’ socialista europea, e nonostante il fatto che non esistano più i Ds e che il Pd non sia membro del Pse, lui è rimasto anche vicepresidente della vecchia e gloriosa Internazionale socialista, anche se ‘a titolo personale’.
D’Alema sa bene che solo adesso i candidati ‘veri’ stanno cominciando finalmente a scendere in campo, mentre cominciano a essere ‘bruciati’ quelli dichiaratisi troppo prematuramente o troppo controversi (come Blair). E che il ‘no, grazie’ di Miliband di ieri potrebbe diventare domani un ‘va bene, se proprio insistete’. Per i laburisti britannici questa potrebbe essere l’ultima occasione di avere un posto europeo importante, prima che i Conservatori di Cameron vadano al governo, con tutto il loro carico di euroscetticismo che li renderà marginali nelle istituzioni comunitarie. Per i Socialisti europei, inoltre, che hanno affondato Blair (mentre il Ppe avrebbe quasi certamente sostenuto l’ex premier britannico), appoggiare Miliband, se ci ripensasse, sarebbe una forma di compensazione nei riguardi dei laburisti di Gordon Brown.
Giovedì scorso, quando è definitivamente tramontata l’ipotesi Blair, le quotazioni di Miliband erano al massimo: è una stella nascente della politica britannica, giovane e dinamico, sarà ‘disoccupato’ dopo la vittoria quasi certa dei conservatori in primavera; ed è il ministro degli Esteri di uno dei grandi paesi dell’Ue, con una grande tradizione di politica estera che affonda le sue radici nell’Impero e nel continua a contare sulla rete internazionale del Commonwealth e sul rapporto privilegiato con gli Stati Uniti.
Venerdì tutto è cambiato: Miliband ha negato di essere candidato e di essere interessato al posto di Alto rappresentante. Non avrebbe potuto comunque dirsi disponibile, per non contraddire la linea del suo governo a favore di Blair. Ma non è l’unica ragione del suio ‘gran rifiuto’: Miliband ha l’ambizione di guidare il Labour dopo la prossima inevitabile sconfitta alle elezioni, e di rilanciarlo con la scommessa di vincere quelle successive, diventando primo ministro. E se lasciasse Londra per Bruxelles potrebbe scordarselo.
L’ambizione politica nazionale di Miliband è dunque la carta migliore a favore di D’Alema, in questa partita, insieme all’appoggio del Pse e all’apertura di Palazzo Chigi, senza la quale la sua candidatura non sarebbe stata possibile. Ma è necessario anche che la ‘disponibilità’ del governo italiano diventi un sostegno attivo nei confronti dei capi di governo del Ppe, che non sono tutti contenti di una scelta così connotata a sinistra.
Ancora più importanti, comunque, per il posto di Alto rappresentante, sono l’appoggio della Nato e il gradimento degli Stati Uniti. Va sottolineato che uno compiti più importanti dell’Alto rappresentante sarà quello di gestire la nuova Politica estera di difesa comune (Pesd), che, quasi in sordina, si sta ormai affermando sul terreno anche più della stessa Pesc (spesso farraginosa e lenta a causa del principio di unanimità degli Stati membri). La Pesd ha ben 18 missioni militari di pace in corso nel mondo, e si appoggia, per attuarle, sulle strutture della Nato. Questa è una delle ragioni, fra l’altro, per cui non è mai decollata la candidatura del ministro degli Esteri svedese, Karl Bildt, vista la neutralità di Stoccolma.
Da questo punto di vista, D’Alema è in una botte di ferro: nessun problema con l’America di Obama, e mai nessuno screzio con la Nato né da premier, né da ministro degli Esteri. Basti ricordare che fu lui a dare il via libera dell’Italia per l’attacco della Nato alla Serbia, nella guerra del Kosovo, e che a lui si deve, in gran parte, la missione Unifil in Libano, che ancora oggi garantisce la pace fra Israele e Libano e la sicurezza sulla frontiera fra i due paesi.
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