Il mercoledì è quel giorno in cui la settimana svolta, il weekend si avvicina ed esce Charlie Hebdo.
Quaranta pagine di satira feroce e tagliente, una galleria di vignette crudeli e geniali e una copertina incendiaria, che eleva la caricatura a virtuosismo: l’emblema della libertà d’espressione, e forse della libertà tout court, che la Francia ha sempre orgogliosamente patrocinato dentro e fuori i confini nazionali.
È difficile spiegare cosa sia Charlie Hebdo, perché mancano i termini di paragone: si pensi a Linus e Cuore con una spruzzata di Vernacoliere,
ma con tirature da rivista patinata e un pubblico fedele e affezionato. È difficile farlo oggi che Charb, Cabu, Wolinski e altri ancora sono caduti uno dopo l’altro, in redazione, con gli occhiali sul naso e la matita in mano.
È difficile perché non si può leggere Charlie Hebdo senza finire per sentirsi un po’ parte di quell’armata Brancaleone folle e scapestrata. Ed è difficile per la sottoscritta, che proprio sfogliando quelle pagine ha imparato a ridere in francese. Perché è questa, l’unica colpa imputata a Charlie: usare la micidiale arma dell’ironia senza risparmiare niente e nessuno. Centrato il fin troppo facile bersaglio della politica, beffati Eliseo, Casa Bianca e Cremlino, spernacchiata l’intellighenzia d’Oltralpe, la redazione aveva cercato un bersaglio all’altezza del proprio genio canzonatorio, e aveva puntato le matite al cielo. Ecco allora la copertina di Charlie la famigerata e temuta “une”, ridicolizzare Bibbia, Torah e Corano con lo stesso equanime accanimento con cui, in politica, menava bordate a destra e sinistra. Ecco il numero natalizio, con la Madonna in posizione ginecologica e “la vera storia del piccolo Gesù secondo i vangeli apocrifi” ed ecco Allah guardare giù e singhiozzare: «É terribile essere amato da questi coglioni». Schietta iconoclastia, nel rispetto della convinzione – piuttosto diffusa, nella Francia laica e illuminista – che l’ironia possa permettersi di essere sacrilega e che nessun dogma tenga davanti alla libertà d’opinione.
Contro Charlie Hebdo hanno scagliato anatemi tanto i cattolici quanto gli ebrei, ma solo i terroristi islamici hanno pensato di imbracciare i fucili e andare ad ammazzare otto giornalisti rei di aver preso in giro il loro Dio (il mio adorato Wolinski, sappiatelo, aveva 80 anni), e due agenti di polizia che erano lì per proteggerli. A stupire non è tanto l’ormai abituale sprezzo della vita, quanto la precisione con cui il bersaglio è stato scelto e centrato. Precisione logistica, innanzitutto: non si pensi al gesto di qualche folle che, adontatosi per un paio di vignette, abbia deciso di colpire il facile obiettivo di un giornaletto satirico.
Charlie Hebdo aveva già subito minacce e attentati dai fanatici di Allah: dopo le molotov del 2011 la redazione era costantemente sorvegliata, il direttore Charb era sotto scorta e il giornale era diventato emblema della Liberté stessa, tanto che Nicolas Sarkozy, non certo un accanito lettore, aveva accolto giornalisti e vignettisti all’Eliseo come degli eroi.
Il messaggio dei terroristi è quindi forte, chiaro e terribile: eseguiremo le nostre condanne in barba alla vostra sorveglianza e ai vostri encomi ufficiali. E poi, ovviamente, c’è il fatto che niente e nessuno, in questo momento storico, incarnasse come Charlie Hebdo i valori di laicità, libertà di stampa e di espressione di cui la Francia si fa da sempre portatrice.
Ecco perché la strage del 7 gennaio è, in tutti i sensi, un colpo al cuore della nazione, e senz’altro anche alla nostra idea d’Europa. E davanti a questa consapevolezza tragica, vorremmo riuscire a tirar fuori una risata sprezzante e irriverente, come Charlie insegna. Ma no, stavolta è davvero impossibile.