C’è qualcosa di straziante nella parabola discendente del Varese delle ultime sette partite.
Qualcosa di più della disperazione dei tifosi, annichiliti davanti allo sfacelo che match dopo match i biancorossi mettono mestamente in scena. Qualcosa che travalica anche i tentennamenti della società, incapace di tenere la barra diritta ed esposta alle raffiche della sconfitta. Venti che sono diventati burrasca senza che la rotta fosse tracciata e il nocchiero ne venisse a capo.
Certo, gli errori sono stati tanti. La sciagurata campagna acquisti di gennaio, il turn over in panchina, l’assenza dell’uomo-squadra non solo in campo, ma soprattutto dietro le quinte. Quello capace di motivare giocatori e tecnici, di metterci la faccia e non solo. Non ce ne sono tanti in giro e non sono facili da trovare, d’accordo.
Ma qualcosa di meglio degli omuncoli che giocano allo scaricabarile facendo un passo indietro quando c’è da addossarsi la responsabilità di quanto sta accadendo, qualcosa di meglio guardandosi attorno lo si trova senza molta fatica. Che in questa squadra manchi un playmaker affidabile è cosa risaputa fin dal ritiro valdostano, che la condizione fisica degli ex corsari sia a livelli imbarazzanti lo si è visto da Padova in poi. Bei tempi quando, con la cura Panzarasa, il Varese volava in campo spinto dal cuore e da muscoli tonici. L’uno e l’altro sembrano rimasti appesi a qualche campionato fa.
Ma, si diceva, nel cupio dissolvi della squadra biancorossa c’è qualcosa di più di un semplice rovescio sportivo. C’è la sensazione di una parabola discendente che ha coinvolto tutta la città. Non è solo il calcio a essere in crisi ( e non solo di risultati). La pallacanestro che lo scorso anno aveva inebriato i varesini illudendoli di essere tornati ai livelli del tornado gialloblù in questo campionato ha faticato a tenersi lontana dalle zone calde del fondo classifica. E anche qui il timoniere è stato sostituito in corsa (una volta, non tre come nel calcio) segnale evidente che la prima scelta non era stata tra le più azzeccate.
È come se la Varese sportiva avesse deciso, suo malgrado, di passare dal ruolo di protagonista a quello – se va bene – di comprimaria. Una specie di suicidio sportivo che sembra avere radici lontane, che affondano bene al di là dei campi di gioco. Quasi che a questa città, a queste squadre, mancasse un progetto, un sogno. Qualcosa per cui vale la pena di soffrire, di lottare, di mettere mano al portafogli. Ci si limita a tentare di difendere il proprio passato, distogliendo lo sguardo dal futuro.
Ma è esattamente quello che capita a ogni livello, da quello politico a quello educativo. Dove sono finiti i grandi progetti della Varese del Duemila? Si limitano alla potatura delle aiuole di piazza Risogimento e ai mercatini domenicali con banda e rombanti Ferrari di contorno?
E le grandi opere? Davvero un parcheggio alla Prima Cappella per una novantina di vetture può essere difeso come opera pubblica di importanza capitale? Non proprio c’è di meglio da inventare, progettare, proporre, discutere e realizzare?
Stiano attenti gli amministratori varesini: se prende piede anche in politica il valzer degli allenatori, i primi a cambiare panchina ( pardon, poltrona) potrebbero essere loro.
Marco Dal fior
© riproduzione riservata