“Anche il poeta ha un corpo./Mangia. Invecchia./Anche il poeta è stretto/ Nella sua triste carne”.
Leggo questi versi grazie ad un amico varesino che mi porge “Il tredicesimo invitato”, una raccolta di poesie di Fernanda Romagnoli (Roma,1916-1986), pubblicata da Garzanti nel 1980 e ne scopro la modernità. Il risvolto di copertina è firmato dal poeta luinese Vittorio Sereni che presentava allora il volume come “un libro drammatico”, in cui anima e corpo sono in drammatico conflitto.
Un visibile effetto di sdoppiamento, sottolinea Sereni, «a cominciare dal testo che dà titolo all’opera» che «in tal senso l’apparenta a Pedro Salinas oppure, da noi, a Giorgio Caproni», una poesia che custodisce in sé «più di un’impronta di quel “genio dell’improprietà”, di quello sconcertato analogismo che ha segnato così a fondo l’opera di Baudelaire e illuminato il discorso dei grandi mistici”.
Fernanda Romagnoli era nata Roma nel 1916, un diploma in piano al Conservatorio di Santa Cecilia a diciotto anni, e a venti quello magistrale, da privatista. Nel 1943, la poetessa dà alle stampe la sua prima raccolta poetica, “Capriccio”, con la prefazione del bolognese Giuseppe Lipparini.
Nell’incertezza delle vicende belliche, è costretta a sfollare con la famiglia ad Erba nel 1944, e, due anni dopo, fa ritorno a Roma. Fernanda Romagnoli si sposa quindi con l’ufficiale di cavalleria Vittorio Raganella, che la porta con sé, dal 1948, a vivere, da Firenze a Roma, a Pinerolo, infine a Caserta, dove resta dal 1961 al 1965. Maestra elementare, Romagnoli pubblica, in questi anni, la sua seconda opera poetica, “Berretto rosso”, dove si trova la splendida lirica “Io”.
E questo suo prezioso autoritratto: “Quella donna dal viso indifeso / – un poco sfiorita- /che passa nello specchio / in una scolorita veste rossa, / senza fruscio, di fretta, / rialzando sul capo i capelli / con mano distratta: / quella donna dall’anima dimessa / dicono che son io”. La ritroviamo lontano dai salotti letterari, negli anni Settanta, confortata dall’amicizia Carlo Betocchi e Nicola Lisi e poi di Attilio Bertolucci che, nel 1973, fa uscire presso Guanda la sua terza raccolta, “Confiteor”. Ma il conflitto tra anima e corpo si fa più aspro, a causa del decorso di un’epatite contratta negli anni di guerra che la costringe ad un doloroso intervento e alla drammatica infermità. La poetessa riesce tuttavia a collaborare con alcune riviste letterarie importanti come «La Fiera Letteraria» e «Forum Italicum» e, con la radio, a «L’Approdo».
Alcune sue poesie inedite vedono la luce, grazie all’interessamento di Ginevra Bompiani e di Gianfranco Palmery, sul quotidiano «Reporter» nell’inserto «Fine Secolo» e nella rivista «Arsenale», pochi mesi prima della sua morte, che la coglie a Roma, presso l’Ospedale Sant’Eugenio, il 9 giugno 1986.
«In quanto all’anima – scriveva Sereni sempre nel risvolto di copertina, facendo riferimento ai versi della Romagnoli “tu, che chiamiamo anima” – quella che nominiamo con crescente incertezza e malcelato imbarazzo, l’anima originariamente “digiuna d’ogni perché” ma “famelica altrettanto”, è volta a volta “triste segugio”, cane all’erta dei segni di un cacciatore che è Dio, ma anche rivolo che scorre senza difesa, “stigmata che in me sfolgora e dura”: presenza stabile mai, ma piuttosto un rintocco, un segnale, uno stimolo, un’insidia, un’infiltrazione alla quale il corpo – la quotidianità – offrirà pur sempre qualche feritoia».
Sulla riflessione che chiudeva l’introduzione di Vittorio Sereni secondo il quale non aveva senso chiedersi se i versi della Romagnoli fossero “avanzati oppure attardati”, il tempo non sembra passato, segno della grandezza di una voce poetica, schiva e forte, ingiustamente troppo poco conosciuta.