Un miracolo chiamato Erika. Noi di fronte a lei ci sentiamo piccoli

L’editoriale del nostro Francesco Caielli

Sabato sera il Bof, sul palco del Vela di fianco a papà e mamma Gibe, ha detto una cosa meravigliosa che ci ha lasciato lì. A metà tra il commosso e lo stupito, a pensare che con tutto lo schifo che ci butta addosso questo mondo è un posto fatto di belle persone. «Erika è in ultima fila, lassù – ha detto Roby – e non potrà scendere ad abbracciarci. Però ci guarda, ed è qui con noi».Erika

è una grande donna, una guerriera di quindici anni, che qualche mese fa il cancro si è portata via ma che incredibilmente sta continuando a lottare e fare miracoli nonostante il suo sorriso si sia spento e sia rimasto solo nei ricordi di chi, almeno una volta, ha avuto la fortuna di vederlo. La sua è una grande famiglia che nelle settimane del dolore più atroce, delle domande senza risposta, dello svegliarsi la mattina pensando per qualche secondo che sia tutto un incubo, delle fotografie che fanno piangere e sorridere allo stesso tempo, ha trovato il modo di reagire. Parliamoci chiaro: un padre e una madre che perdono una figlia di quindici anni hanno il diritto di reagire come vogliono, possono permettersi di trattare male chiunque e incazzarsi col mondo chiudendosi nella loro rabbia sacrosanta. Però i genitori di Erika, devastati dal dolore, hanno scelto – perché ne sono stati capaci, perché sono forti, vivaddio: Erika avrà pur perso da qualcuno, no? – di reagire così.Ecco. Erika aveva un tatuaggio su un braccio: una scritta, “Fuck the cancer”. Anzi: “Fanculo al cancro”. Che in italiano sarà meno elegante ma è molto più efficace. Papà e mamma hanno preso quel tatuaggio e se lo sono trapiantato nel cuore, facendone una bandiera e una ragione di vita. Mica che quel male bastardo si illudesse di aver vinto lui, portandosi via Erika. No, sia chiaro.Perché quello che sta succedendo qui, a Varese ma pure in tutta Italia, non è la storia di una sconfitta, anzi. Con gli occhi ancora bagnati dalle lacrime per quell’addio struggente i genitori di Erika avevano sentito il bisogno di fare qualcosa per continuare la battaglia, per continuare a mandare a fare in culo il cancro in qualche modo. A dargli una mano sono arrivati gli ultras, quelli di cui noi giornalisti parliamo solo quando fanno casino, che hanno trovato l’idea giusta e ci si sono buttati. Hanno contattato qualche giocatore passato da Varese, chiedendogli di mandare la loro maglia autografata da mettere all’asta. “Così tiriamo su qualcosa, e lo diamo all’ospedale per curare altri bimbi come Erika”.E adesso? Adesso è successo che la voce è girata, che la serie A si è mobilitata e si è mobilitata pure la Premer League, la serie A di basket, il mondo del ciclismo. E le maglie arrivate sono state tante, tantissime: un’ondata inarrestabile. Icardi, Balotelli, Pavoletti, Nibali, la Pallacanestro Varese e tante, tante altre ancora. Il “giochino” si è fatto interessante, e la sensazione è che saranno tanti i bambini che ringrazieranno Erika, un giorno: anche senza averla mai conosciuta, anche senza saperlo.Ecco, no. Questo no. Perché pure noi vogliamo fare la nostra parte e ci facciamo una promessa. Continueremo a parlare di Erika: anche tra qualche anno, anche quando la commozione popolare sarà passata, anche quando la sua storia non sarà più “giornalisticamente interessante”.Continueremo a farlo, perché le gesta dei grandi guerrieri sono fatte per essere raccontate: sempre e per sempre. Parleremo di Erika: una ragazza bellissima che sarebbe diventata una donna splendida. Una ragazza partita troppo presto rimasta con noi troppo poco. Abbastanza però per lasciare un segno profondo e indelebile. E noi, piccoli di fronte a lei, quasi ci spaventiamo davanti a questa meraviglia.