Credo nella musica un po’ per deformazione professionale, un po’ perché in conservatorio, a studiare pianoforte, ci ho speso i migliori anni della mia vita e perché – infine – non penso che correre dietro alle note sia un passatempo adolescenziale. A patto che con la musica si faccia cultura. Questa è una responsabilità che dobbiamo sentire nostra: da chi scrive e recensisce a chi organizza concerti, da chi vende dischi e biglietti, a chi produce e promuove.
A chi infine, sul disco, ci mette l’Iva che agevolata non è.
Perché tanta insistenza su un argomento che potrebbe essere – per alcuni forse lo è – banale? Con il passare degli anni abbiamo perso il senso antropologico del metterci in cerchio e raccontare. Un concerto è un fuoco; un disco è il cerino con il quale poter accendere un falò. La parola più giusta è aggregazione: giovanile o meno, ma questo è. Il valore della comunicazione terapeutica – quella di riflettere, dibattere e confrontarsi su un prodotto d’arte – è rimasto inceppato nella cerniera lampo della cultura istantanea.
Sarà la crisi economica, sarà la bassa alfabetizzazione italiana alla musica, sarà la stanchezza o la noia, sarà il web e la musica liquida, sarà la fretta.
Ma la scelta di chi in Varese ha deciso di battere con insistenza la strada musicale – ci metto Mauro Gritti, che con coraggio apre Varese Dischi in Galleria Manzoni, e Massimo Bruno che con il suo Record Runners sta vincendo la sua battaglia con il mercato – più che una prova di resistenza testarda deve essere una prova di informazione e formazione.
Perché accanto agli strilloni del pop e agli esegeti del rap, accanto alle vocine dei talent show, al marketing creativo e alle scenografie stellate dello showbiz ci deve stare la consapevolezza di adottare la musica non solo come strumento di intrattenimento ma anche, e soprattutto, di crescita personale e collettiva. Sarà, il mio, un pensiero vintage ma il ritrovarsi con la voglia di condividere è più forte – a volte – del low cost, della traccia scaricata dalla rete o del consiglio d’ascolto racimolato da un passaparola di seconda sponda. Spalancando la porta di un negozio dove si vende cultura, si devono spalancare anche le porte della conoscenza.
E’ compito anche di chi commercializza dischi stimolare la curiosità in chi ascolta, consigliare il prodotto giusto, appassionare agli eventi della musica, contestualizzare il periodo storico, aprirsi alla discussione concreta e positiva. Un negozio di dischi non è un’isola nel mare della cultura: la professionalità di chi “piazza” musica si deve ribaltare su chi acquista. Con il rischio di fare filosofia, è in una città chiusa come Varese che ci si può rimettere in gioco.
Ma la questione non è il negozio di dischi, ma quello che ci gira intorno: organizzare, suonare, provare, mettere in circolo la musica non è solo compito di chi “fa concerti” ma anche di chi la fa ascoltare. Ci vorrebbe, forse, “meno istituzione e più istinto” e il coraggio di trasformare un negozio di dischi in piccola “casa della cultura” dove può accadere che si entri con un’idea e se ne esca con un’altra.
Dove il giovane, ma non solo lui, scopra ed esplora. Perché non è vero che la musica è finita.