Un paese civile non ha code per le tasse

Stare in coda è un fil rouge del nostro tempo, forse di tutti i tempi. Solo che c’è coda e coda: negli ultimi sessant’anni, per esempio, noi italiani siamo stati in fila per le tessere annonarie quando il cibo era razionato in tempo di guerra, per emigrare all’estero o al Nord in cerca di fortuna, per andare in vacanza durante il boom economico, per fare benzina nelle periodiche crisi petrolifere, per la scorta di viveri dopo Chernobyl (ricordate?), per lo stadio quand’era meno caro e meno pericoloso.

Adesso le code si fanno per pagare le tasse: un po’ di differenza c’è, pratica e anche filosofica. Se posso aspettarmi qualcosa di bello c’è caso che la prenda bene e rimanga zen: ma se alla fine, stanco morto e arrabbiato, devo pure sganciare pecunia, non ci siamo.

È civile un Paese dove la gente – in piena crisi economica, per giunta: un tunnel che sembra non finire mai, e di cui non si vede letteralmente la luce – compresi anziani e disoccupati, deve mettersi in fila per calcolare e pagare l’ultima delle tasse? Quella che segue le cugine che, battezzate con nomi da rebus che manco alla Settimana Enigmistica, sono proliferate negli ultimi mesi, confondendo acque già torbide e malsane.

I nostri governanti si sono clamorosamente contraddetti con affermazioni uguali e contrarie: Berlusconi dice dal 2004 che «è moralmente giusto evadere le tasse esagerate», Padoa Schioppa nel 2007 ribatté che «pagare le tasse è bellissimo». Provocavano entrambi, sulla pelle dei cittadini comuni: perché, se c’è un dettaglio che ha accomunato tutti i governi, di qualsivoglia foggia e colore, questo è la pressione fiscale insostenibile, checché ci raccontino.

Nel far west quotidiano di sigle, acronimi, moduli, cartelle (magari pazze), acconti e saldi, è accettabile che l’italiano medio non possa mai sapere con certezza quali e quante tasse deve pagare? Ed è accettabile che lo Stato – il quale sa già tutto di noi e semplicemente incrociando i dati, cioè facendo parlare tra loro uffici pubblici altrimenti muti e sordi, avrebbe comodo accesso a tutte le informazioni sensibili possibili – prima di mettere le mani nelle nostre tasche ci chieda pure un sacrificio pratico, costringendoci fisicamente a rapporto in un caos logistico senza precedenti? Bravi i funzionari di buon cuore che tamponano alla bell’è meglio offrendo tepore e generi di conforto ai contribuenti, anime in pena che hanno perso la bussola: ma in un Paese civile perché deve succedere questo?

Sembra di essere tornati al tempo bellico, alle “tessere della fame”, con l’aggravante che non si fa la coda per prendere un tozzo di pane, bensì per privarsene. Nell’era dei computer, di internet, ogni amministrazione pubblica si riempie la bocca, i dépliant e il sito istituzionale con il mantra del tutto-con-un-clic, mentre in quelle code bruciamo tempo (di lavoro, di gioco, di svago, di tutto), energie e buonumore, oltre ai dané.

La gente non ne può più, ma è anche un po’ colpa sua: la politica sa che la ribellione non va oltre l’alzata di voce e l’esasperazione condivisa col vicino di ticket progressivo. Che soglia d’indignazione abbiamo, quanto pigri siamo? Non abbiamo fatto una rivoluzione di massa nella storia, neanche per motivi ben più gravi: figurarsi se facciamo tremare i palazzi del potere per la Tasi (o la Tari, o la Iuc, o un’altra sigla a vostra scelta, c’è l’imbarazzo). Al massimo insultiamo Roma ladrona, pure senza essere leghisti: e Roma fa spallucce.

Lo Stato, dunque, chiede tanto: peccato che quando deve dare – anzi, restituire – non sia altrettanto solerte, inflessibile, pugnace. Tipo: quelli che all’atto della dichiarazione dei redditi avevano un credito col fisco, e hanno presentato come da istruzioni l’Iban all’Agenzia delle Entrate per il rimborso dietro vaga promessa di celerità, quando vedranno i loro legittimi soldi?

Ai suoi bei dì, Gesù Cristo ammonì gli ebrei: date a Cesare quel che è di Cesare. Oggi direbbe lo stesso, perché l’onestà non ammette alibi ed è un distintivo del bravo fedele: ma forse andrebbe anche da Cesare a cantargliene quattro.

Ps – Un’amica italiana che vive in Svizzera si è lamentata perché il governo di lassù ha impiegato ben tre giorni per recapitarle dei documenti fondamentali. Beata lei.

Stefano Affolti

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