L’azione. Punto.
Sessantadue centesimi di secondo sul cronometro, palla in mano a Mike Green. Ebi Ere, da centro area, sale a portare un blocco per Adrian Banks, che taglia lontano da canestro, verso sinistra: sarà questa una delle pennellate decisive al quadro più bello dipinto dalla Pallacanestro Varese negli ultimi 18 anni e nella sua storia. Sì, perché il movimento di Adrian riesce a distogliere l’attenzione di parte della difesa senese dal centro delle operazioni, dove l’artista Dusan Sakota è
pronto con una tavolozza di colori accesi: prende il blocco di Janar Talts, recupera quel metro di spazio idoneo a staccare Kangur, elude il ritorno dell’Ortner fermato dall’estone biancorosso, riceve dal suo playmaker e tira. «Quante volte l’avevamo provata in allenamento quella rimessa dal fondo… I miei giocatori avevano tre opzioni e sono stati bravi a scegliere quella giusta: ottimo è stato il passaggio di Mike, con un tempismo perfetto, mentre fantastico è stato il rilascio di Dusan».
Ebbene sì, anche lui se la ricorda: avevate qualche dubbio? Quattro anni da Montepaschi-Cimberio 80-82, gara 6 delle semifinali scudetto. Quattro anni dal tiro di Sakota. Quattro anni trascorsi anche per coach Frank Vitucci con un pensiero dolce a vagare per la mente e nel cuore, un piccolo rifugio dell’anima nel quale nascondersi dalle tristezze della vita (cestistiche comprese).
Indimenticabili. Loro, i giocatori protagonisti plastici di quel capolavoro, lui, l’allenatore che li presiedeva, e quell’attimo che ci ha fatto sentire i re della pallacanestro italiana: «Quel tiro è stata la dimostrazione pratica di una squadra che non voleva arrendersi, nonostante fosse già stata data da tutti per spacciata – rammenta Vitucci – Ci permise di andare a gara 7, di continuare il nostro sogno: è un momento ancora bello e indelebile, nonostante l’amara conclusione di quella serie». Bello e indelebile per tante ragioni, bello e indelebile per tanti uomini: «Per Dusan, ovviamente. Fui molto contento per lui, perché si tratta di una ragazzo speciale che si meritava una gioia così. Mi ha sempre ringraziato per quella stagione: arrivava da un anno a Enisey, in Russia, un po’ lontano dai giochi, e il brutto infortunio di Pesaro (in cui il serbo, era il 25 aprile 2010, si scontrò fortuitamente con Poeta riportando un’emorragia interna che lo costrinse al coma farmacologico e mise in forse la prosecuzione della sua carriera ndr) era ancora fresco e un po’ condizionante. Gli fu data una chance e fu bravo a sfruttarla: insieme a Polonara formavano una coppia di “4” molto duttile e poi Sakota aveva quel tiro pazzesco…».
Un attimo: con la mente non puoi scherzare. Ha le sue strade e ti costringe a seguirla, senza che tu possa opporre resistenza. Si vorrebbe il tiro di Sakota “finito”, assoluto, bastante a se stesso, ma inevitabilmente ci si ritrova a rimembrare e a parlare anche del prima e del dopo quella prodezza. Parentesi non altrettanto piacevoli, forse, ma da rivivere con più serenità a 1460 giorni di distanza: «Con Siena fu una serie in cui nessuna delle due squadre si risparmiò – riprende l’allenatore veneziano – Fu una battaglia, senza esclusione di colpi: erano più forti di noi, ma il finale avrebbe potuto essere diverso. E quindi il ricordo più brutto per me continua ad essere l’infortunio di Dunston, che tra l’altro era stato stoico giocando il primo quarto di gara 6. Anche Banchi, coach di quella Siena, lo ammette a distanza di anni: l’assenza del nostro centro ha cambiato una strada già tracciata…».
In un giorno di festa, però, è brutto lasciarsi con l’amaro in bocca a causa di ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato. Meglio risintonizzare subito la memoria sul dolce dell’esistenza, non solo del parquet: «Non ci siamo mai “persi” con quel gruppo di giocatori e ciò rimane forse una delle soddisfazioni più grandi – conclude Vitucci – Gli “italiani” Andrea (De Nicolao) e Achille (Polonara) li sento spesso, oltre ad averli affrontati diverse volte da avversario. E poi sento Mike (Green), tanto Ebi (Ere) e infine Bryant, anche se adesso è qualche mese che non ci telefoniamo. Annate così non capitano facilmente, per la chimica che si è creata nella squadra e al di fuori di essa». Chimica evidente anche a chi gravitava intorno a quel mondo felice e sognante. Indimenticabile, come quel tiro…