Per la Cimberio seduta era l’ennesima partita della vita. A Gradisca d’Isonzo la squadra di Varese che gioca a basket in carrozzina aveva l’esame senza riparazione per aprire un’altra porta della sua storia: quella d’entrata nelle otto squadre più forti del diversamente Paese. L’ideale per Damiano e compagni era vincere con più di sei punti di vantaggio per raggiungere il Gradisca al secondo posto in classifica mettendogli il muso davanti nella differenza canestri dei due incontri diretti.
Fin dalla palla a due Varese ha dimostrato tutto di più. Aggressiva in difesa, precisa in attacco ma soprattutto determinata a non concedere nessuno spazio a Gradisca. Differenza cresciuta minuto dopo minuto fino al + 26 finale che a due giornate dalla fine della stagione regolare vale una ruota nei play off.
Ma la vittoria di sabato oltre il probabile passaggio del turno ha detto molto di più. Al suo primo anno nel massimo campionato Varese può
contare su una squadra vera con un tecnico che ha capito più di ogni altro collega che l’ha preceduto senza arrivare al termine della stagione cosa significa allenare l’Handicap Sport.
L’andata e ritorno a Gradisca, dieci ore di pullman inframmezzate dalla partita che valeva una stagione, hanno messo in evidenza un gruppo di giocatori e di dirigenti che prima di festeggiare la vittoria ha pensato ai compagni costretti a casa. Un gruppo che ad ogni partita casalinga sa far muovere da casa tanta gente che magari nemmeno conosce le regole del basket in carrozzina ma l’ha scoperto e lo segue perchè lo gioca una squadra di Varese che ha rischiato di scomparire, ha tenuto duro che più duro non si può e con l’aiuto di pochi ha saputo rialzarsi e quindi, trattandosi di basket da seduti, compiere un miracolo.
Un gruppo che quando viaggia deve smontare le carrozze per salire in carrozza e rimontare le carrozze per scendere dalla carrozza. Un gruppo abituato a montare e smontare carrozzine e protesi ma determinato a non smontarsi mai.
Un gruppo integrato composto da disabilità, culture e Paesi diversi capace di accogliere e inserire senza contraccolpi o sbandate anche un giovanottone arrivato a Varese dall’altra parte del mondo con il suo bagaglio di centimetri, muscoli e tecnica. Per il ventiseienne sud coreano Kim Donghjeon l’innesto nella squadra di basket in carrozzina di Varese è stato immediato e vincente. Amputato della gamba destra dall’età di sei anni in seguito ad un gravissimo incidente automobilistico, Kim scopre il basket da seduti a quindici anni diventando in breve uno dei migliori giocatori del suo Paese. Nella partita di Gradisca Kim ha messo in mostra il meglio di sé. Cattivo con gli avversari, propositivo con i compagni, piovra a rimbalzo e mano calda, sempre con un sorriso in stile Bud Spencer stampato sul viso. Conclusa la sua fatica, dà il cinque ad ogni componente della comitiva varesina in trasferta, stringe la mano e abbraccia il suo avversario diretto – il quarantenne bosniaco Izet Sejmenovic, altra storia tutta da raccontare figlia della tragica guerra nella ex Jugoslavia – e infine rivolge un lungo applauso allo sportivissimo pubblico di casa che per l’occasione ospitava un ammiratissimo Francesco Moser.
«Stasera abbiamo fatto una grande partita – attacca Kim – non sapevo che bastava vincere di 7 altrimenti mi sarei fermato prima visto che dovevamo recuperare le cinque ore di pullman dell’andata e adesso ce ne toccano altrettanto per tornare a casa». Ah, quindi Varese è già casa? «A Varese e con questa squadra mi sono trovato subito bene. Sto bene con i miei nuovi compagni, con i dirigenti, i tifosi e mi piace molto il vostro “Apollo” (aperitivo…). Dopo i due anni trascorsi a Macerata ero curioso di vivere una esperienza tutta nuova che purtroppo ho dovuto iniziare a stagione in corso perché ero impegnato ai Giochi Asiatici con la mia nazionale».
Com’è il basket in carrozzina in Corea del Sud? «Rispetto all’Italia è decisamente meno considerato e di minor qualità. Nel campionato nazionale giocano sei squadre delle quali solo due sono a buon livello. Qui invece si incontrano grandi squadre e ottimi giocatori. A Macerata pur ottenendo buoni risultati alternavamo partite esaltanti e deludenti. A Varese fin dal primo allenamento ho capito di essere arrivato in una grande squadra composta da ottimi giocatori in grado di giocarsela contro chiunque».
Un voto in pagella a Varese per vivibilità e accessibilità. «Varese è molto graziosa e mi sembra che per chi come me cammina grazie ad una protesi sia possibile muoversi abbastanza agevolmente. Invece, l’aspetto che voglio sottolineare è la naturalezza con la quale da voi una persona in carrozzina o con una protesi si muove tra la gente senza diventare un’attrazione o destare sguardi particolari. In Corea purtroppo non è così».
Era il caso il giorno prima di giocare una gara che vale una stagione di farsi un tatuaggio al limite del condono edilizio? «In effetti non è stata una bella idea: prima di giocare mi sono messo sul braccio una dose industriale di crema che il sudore ha ripulito in fretta causandomi un bruciore poco piacevole. Non importa, è una cosa che volevo fare per dedicarla a mio figlio nato da pochi mesi che mi ha raggiunto in Italia con mia moglie e i miei cari. Ho messo la sua data di nascita, il suo peso, il suo piede attuale a grandezza naturale e il nome che abbiamo scelto per lui: Riwon».