Non ci si piega sulle problematiche alla casa circondariale di Busto e non ci si ferma alle analisi constatando magari l’impossibilità di venirne a capo, anche perché le soluzioni non dipendono da via per Cassano. Si cammina. Ed allora avanti nel proprio lavoro in ossequio sempre alla sicurezza, ma anche in favore della complessa opera di rieducazione.
E Busto è un laboratorio di un’esperienza di Giustizia Riparativa della quale se ne parla da anni ma che fatica a farsi largo il cui sviluppo potrebbe facilitare le problematiche carcerarie riducendone nel contempo anche i costi. Sono volute le maiuscole, trattandosi di un percorso di vita. Di un cammino culturale. Di un cambiamento di mentalità.
Ne è responsabile il professor , docente presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università degli Studi di Milano nonché componente dell’Istituto di Scienze Religiose della Diocesi di Milano. « Il gruppo di lavoro del carcere bustocco riguarda una decina di detenuti e non con reati gravi e l’abbiamo chiamato, assieme alla dottoressa , “Dieci passi per mediare” – fa sapere – e sono appunto dieci incontri che compongono un percorso che riguarda un gruppo di detenuti, ma è anche riservato agli agenti carcerari. E che vengano coinvolti questi ultimi potrebbe sorprendere. Ed invece non lo è. Perché? Perché vi è la quotidianità, il rapporto continuo e la giustizia riparativa non deve trascurare questo aspetto. Anzi».
Ma cosa s’intende per giustizia riparativa?«L’assunzione di responsabilità di chi ha commesso l’errore. La prima cosa che ti risponde chi ha commesso un delitto è che non è stato lui o al massimo che è stato indotto a farlo. E qui non c’è da sorprendersi perché questo comportamento lo si legge nella Bibbia quando Dio chiese a Caino dove fosse suo fratello Abele e Caino rispose che non era il suo custode. Ecco, in primis l’assunzione
di responsabilità, quello di aver commesso un errore. In secondo luogo l’incontro con la vittima o, nei casi di omicidio, l’incontro con i parenti della vittima. La giustizia riparativa intende recuperare il ruolo della vittima, capirne i suoi drammi, mentre invece per la giustizia ordinaria è solo uno strumento. Finito il processo, c’è la condanna del reo, ma di chi ha subito il danno fisico e morale non si ricorda più nessuno. O meglio le istituzioni non s’interessano».
È un percorso che vuole recuperare tutti gli attori per «appunto assumersi la responsabilità, cominciare a comunicare, riscoprire il proprio ruolo e nel contempo approcciarsi alla costruzione di un principio di fiducia. È un camminare faticoso. Ed anche pieno di sofferenza, ma, a mio avviso, necessario per andare verso un cambiamento. Le perplessità e le difficoltà le ho riscontrate anche negli agenti che ogni giorno sono a contatto con realtà complesse. Ma questo cammino è fondamentale perché abbatte pregiudizi e barriere».