La prima volta avrebbe dovuto essere a Seul, nel 1988. Ma un collega dell’atletica ebbe un problema familiare e, data l’importanza di quello sport, si decise di sacrificare uno destinato in linea di massima ai servizi di basket (cioè il sottoscritto) per mantenere inalterato il numero di chi avrebbe coperto la disciplina regina dei cinque cerchi. Nei sette anni alla Gazzetta dello Sport, cominciati nel 1982, non ebbi pertanto modo di seguire i Giochi da inviato. E quella volta scoprii – immaginando pure che cosa provano gli sportivi di fronte alle scelte di un c.t. – la durezza di un’esclusione.
L’esordio, già sbarcato al Corriere della Sera, fu dunque rimandato al 1992 e a Barcellona, città che avrebbe sfruttato l’occasione dell’Olimpiade per cambiare volto (in meglio). Ma anche lì rischiai di non andare: avevo mandato al diavolo il mio capodesk dell’epoca e lui, con esercizio del potere vagamente vendicativo, mi tenne a bagnomaria fino all’ultimo. Alla fine sbarcai sulle Ramblas, con un indimenticabile primo giorno olimpico. Giunsi al centro stampa con un improbabile look stile Indiana Jones e dopo gli sberleffi dei colleghi fui spedito al villaggio olimpico,
in quelle ore aperto alla stampa. Piccolo dettaglio: il gruppo era già partito per il sopralluogo e io, sbagliando più volte l’ingresso, sotto quella maledetta Torre Mapfre (ancora oggi ha quel nome: ospita uffici e un hotel) che pareva un giudice infernale, dovetti penare per raggiungerlo. Il primo personaggio illustre che intercettai fu Jury Chechi: aveva il gambone di gesso, s’era rotto un tendine ed era ai Giochi come commentatore. Sfruttai l’occasione e portai a casa l’intervista.
Da Barcellona in poi – Rio 2016 sarà la dodicesima edizione dei Giochi, tra estivi e invernali, che racconterò – il mio rapporto con i cinque cerchi è stato ricco, appagante e bellissimo. Adesso che devo condividere qualcosa di questa storia personale, scopro che gli episodi sgorgano senza fine dalla memoria. Restando al 1992, al villaggio tornai per il classico pezzo sulla chiusura. Botta di fortuna: feci lo scoop di Ben Johnson, ormai un rudere di campione, che era stato denunciato per aver rubato al supermercato interno. E che dire della notte dell’oro del già citato Chechi ad Atlanta, terminata alle 4 del mattino perché Jury non riusciva a fare pipì? O dei dieci articoli preparati, tra le 10 e mezzogiorno, a Vancouver 2010 aspettando la seconda manche dello slalom di Razzoli? Uno fu il pezzo “freddo”, nel caso non avessimo fatto in tempo a prendere l’epilogo della gara; otto furono le possibili varianti della seconda manche, visto che il Razzo era leader e Moelgg terzo; l’ultimo, infine, fu l’articolo per la ribattuta, con il parlato di Giuliano. Quel giorno uscii dal letto alle 5 e tornai in branda alle 2 di notte del giorno successivo, attaccando alla maratona 260 km complessivi di guida (con nebbia e pioggia) per/da Whistler Mountain e una serata a Casa Italia per il “ritorno” dell’indomani. Se pesco ancora uno che dice “ah, beati voi giornalisti per la vita che fate”, lo meno.
Oltre a gioie uniche (quelle della scherma), ci sono stati brividi veri – restiamo in pedana: lacrime, a Pechino 2008, per la stoccata vincente all’overtime, dopo una rimonta pazzesca, della Vezzali sulla Nam; Valentina mi ha regalato il fioretto del suo trionfo -, groppi in gola (le due incredibili sconfitte dei pallavolisti, a Barcellona e ad Atlanta), ricordi indelebili (il Dream Team 1992 di basket), tuffi nello spirito olimpico (ho portato la fiaccola di Torino 2006) e situazioni fantozziane come quella di Nagano 1998. Dovevo intervistare Gerda Weissensteiner, la nostra portabandiera. Con il collega Fabio Cavalera arrivai al budello gelato dello slittino e del bob. Otto del mattino, nessuna anima viva tranne un omone barbuto che spingeva un bob. Ci avvicinammo con timidezza, chiedendogli, in inglese, se sapesse dove fosse Gerda. Ci rispose che forse sarebbe arrivata da un tunnel di fronte a noi. In breve scoprimmo che era Paul Hildgartner, italianissimo, oro nello slittino biposto a Sapporo 1972 e nel singolo a Sarajevo 1984 (oltre che argento a Lake Placid 1980) e passato a guidare i giapponesi… Ah, Gerda alla fine spuntò. Ma c’erano altre quattro ragazze, biondissime tanto quanto lei. Quale era tra quelle? Beata ignoranza e goffi tentativi per beccarla senza smascherare la nostra impreparazione.
In attesa di capire che cosa mi riserverà Rio 2016, forse la mia ultima Olimpiade, voglio chiudere con due episodi ai quali sono particolarmente legato. Ai Giochi di Londra fui premiato insieme a tanti altri colleghi per la decima presenza olimpica. La fiaccola mi fu consegnata addirittura da Dick Fosbury – da ragazzo avevo seguito in Tv, a Mexico 68, la vittoria nell’alto con la sua rivoluzionaria tecnica -, da Dawn Fraser, nuotatrice-icona, e da Harrison Dillard, per ora l’unico ad aver vinto l’oro nei 100 piani e nei 110 ostacoli, per quanto in due Giochi distinti. Ma la “foto” olimpica indimenticabile è un’altra. Non si lega a un’edizione vista e narrata, bensì a un incontro. A Milano nel 2002 arrivò Leni Riefenstahl, la regista che il nazismo ingaggiò per filmare i Giochi del 1936. Aveva già 100 anni, si spense nel 2003. Ho fondati motivi di pensare di essere stato l’ultimo, di sicuro in Italia ma forse in assoluto, a intervistarla. Salì gagliarda le scale del Broletto, chiacchierò per un’ora, mi fece l’autografo sulla cover della cassetta VHS di Olympia, il suo film. Una firma uscita dal profondo della storia: emozionante ancora oggi.