«Un’icona globale, ha più dato che avuto. Ci lascia messaggi che offrono speranza»

«Era semplicemente il migliore. Kirwan mi disse: mi sono ritirato perché ho visto uno grande il doppio. Giocò senza professionismo e grossi guadagni. Gli mancò il titolo mondiale. Che lezione nella malattia»

Il privilegio di una leggenda è quello di continuare a vivere anche quando il suo cuore smette di battere. Finché rotolerà una palla ovale, fosse anche nel più sperduto campo di periferia, resterà vivo il ricordo di Jonah Lomu, scomparso a soli 40 anni a causa di quella maledetta sindrome nefrosica (grave e rara malattia degenerativa dei reni) che nel 1999 bloccò al suo apice la carriera del campione degli All Blacks, costringendolo a un trapianto di reni e successivamente alla dialisi. Una parabola sportiva breve ma folgorante, quella del fuoriclasse neozelandese, tuttora il giocatore che ha realizzato il maggior numero di mete in un Mondiale (15, come il sudafricano Bryan Habana).

Ci sono atleti che vengono identificati totalmente con lo sport che praticano. Diventano simboli, icone di una determinata disciplina, immediatamente riconosciute dagli appassionati come dai profani. Così per tutti Pantani era il ciclismo, Carl Lewis era l’atletica leggera. E il rugby era Jonah Lomu.

Perché lui ha davvero cambiato il modo di giocare, e anche la percezione che gli sportivi avevano del rugbista. Lomu era un XXXL, 196 centimetri per 119 chili. Era mastodontico. Una volta ho chiesto a John Kirwan, con cui lavoro: “John, perché hai smesso di giocare?”. Mi ha risposto: “Perché nello spogliatoio ho visto uno che era grande il doppio di me”. Questo fa capire quanto l’avvento di Lomu nel mondo del rugby abbia fatto la differenza.

L’abbattimento di Mike Catt, che poi sarebbe diventato campione del mondo con l’Inghilterra nel 1995. Lomu lo asfaltò letteralmente. Al Mondiale di quest’anno la Nuova Zelanda ha distrutto la Francia: quando Savea ha segnato tre mete facendo rimbalzare gli avversari, la prima cosa che ci è venuta in mente è stata: mamma mia, sembra Lomu. Non a caso da ragazzino Savea veniva chiamato “The next Lomu”, il prossimo Lomu: beh, in quel momento non era più “The next Lomu”, era davvero Jonah Lomu sul campo.

E non solo per la malattia, purtroppo abbastanza diffusa tra le persone di origine tongana come lui. È stato sfortunato anche perché non ha mai vinto un Mondiale, pur detenendo il record di mete segnate in quella competizione, ex aequo con Habana, che però ha disputato un maggior numero di edizioni. Lomu ha partecipato solo a due Mondiali, e fu proprio in quello del Sudafrica che si fece conoscere da tutti, nel 1995. Quell’edizione venne poi raccontata nel film “Invictus” di Clint Eastwood. Ma Lomu fu sfortunato per un altro motivo ancora.

I suoi anni migliori li ha vissuti quando il rugby era ancora uno sport dilettantistico, cioè quando non guadagnavi un centesimo e ti squalificavano se pubblicavi un’autobiografia, perché avresti ottenuto dei proventi dalla tua attività. Il professionismo era alle porte, ma non si era ancora affermato. Con i parametri di oggi, Lomu avrebbe guadagnato un milione di euro all’anno, le cifre che percepisce un Dan Carter o un Richie McCaw.

Il fatto di non aver potuto guadagnare molto negli anni migliori l’ha poi costretto a tornare sui campi dopo il trapianto, a Cardiff, a Marsiglia nelle serie minori. Una cosa anche un po’ patetica, lo dico senza falso buonismo. Mette sempre tristezza vedere atleti di talento assoluto ridursi a giocare per soldi nelle categorie inferiori. Un po’ come Garrincha a fine carriera.

Fu il primo rugbista a bucare lo schermo attraverso lo spot della Adidas. Questo aumentò la sua popolarità non solo in Nuova Zelanda, com’è ovvio, ma in tutto il mondo. Lo aiutò anche quel nome così facile da ricordare: Jonah Lomu, un nome d’immediato impatto, com’era lui quando giocava.

Credo niente più di quello che è stato. I suoi anni migliori sono stati quelli dal 1995 al 1999. Resta il rammarico di non averlo potuto conoscere più da vicino, visto che in quegli anni i grandi fuoriclasse avevano già smesso di venire a giocare in Italia. Pensiamo a Campese, Kirwan, Botha: erano tutti qua. Sarebbe stato fantastico poter avere anche Lomu.

Purtroppo no. Ho fatto la telecronaca della partita Calvisano-Cardiff, quando lui giocava con i gallesi. Aveva già subìto il trapianto, parliamo del dicembre 2005. Ma aveva ancora un grande fascino, la gente impazziva per lui. Non era ancora l’epoca dei selfie, ma già allora c’era grande attenzione per l’immagine degli atleti. E lui aveva la rarissima forza di essere riconosciuto anche da chi abitualmente non seguiva il rugby.

La sua esperienza ha trasmesso un messaggio molto positivo. Ha potuto dire agli altri malati: “Vedete, non solo si può guarire, ma si può anche ricominciare a praticare lo sport professionistico. Che significa avere un fisico non al 100%, ma al 110%”. Se vogliamo, lo stesso tipo di messaggio che aveva mandato Armstrong vincendo il Tour de France dopo il tumore: sono segnali estremamente positivi per chi è a casa a combattere una malattia. E nel caso di Lomu, che si è sottoposto a un trapianto, è passato un ulteriore messaggio: mettete a disposizione i vostri organi quando morite, perché altre persone potranno vivere grazie a voi.

Posso giudicare per quello che vedo direttamente, come vicepresidente del Rugby Varese: i nostri numeri sono costantemente in crescita. Questo significa che la gente ha compreso che questo sport è portatore di valori che vanno al di là dei risultati della nazionale. I genitori hanno capito che, nella società di oggi, avere un contatto un po’ più fisico e meno virtuale con gli altri può solo far del bene. E che, se il ragazzo ha qualche ammaccatura sulle ginocchia, non è un dramma: è sempre qualcosa di più sano rispetto a chi rimane tutto il giorno attaccato allo smartphone o all’iPad.

In questo sport puoi andare a vedere una grande partita internazionale senza rischiare nulla. L’unico pericolo è quello di ingrassare, perché immancabilmente ti offrono una salamella e una birra.n