Usura, estorsioni e camorra Undici arresti, settanta vittime

VARESE Dalla media industria con numerosi dipendenti, giù giù fino ai negozi e alle famiglie. Le vittime del giro di usura stroncato da carabinieri e guardia di finanza formavano un ventaglio quanto mai ampio e composito. In manette mercoledì sono finite undici persone, tutte residenti in provincia di Varese. Sono accusate, oltre che di usura, anche di esercizio abusivo della professione finanziaria, estorsione, ricettazione, detenzione e porto illegale di armi. Ma la loro attività comprendeva anche le rapine,

lo spaccio di droga e la contraffazione di abiti di marca.
Fra gli undici finiti in manette, due erano le menti dell’organizzazione che, solo con l’usura, “fatturava” circa 500mila euro all’anno. Si tratta di Pasquale Di Martino, nato a Castellamare di Stabia nel 1954 e residente a Solbiate Arno: secondo gli inquirenti, è affiliato con il potente clan camorristico dei D’Alessandro; e di Albano Bruno Bellinato, nato a Gallarate nel 1966 e residente a Varese: quest’ultimo era già finito nei guai nell’ambito dell’inchiesta «Prestige car», una complessa vicenda di false intestazioni di auto di lusso che aveva coinvolto anche vip del calibro di Franco Baresi (poi uscito immacolato dalle indagini).
Secondo gli investigatori, Di Martino si occupava di trattare con gli usurati (dai primi contatti ai “solleciti”), mentre Bellinato investiva i proventi illeciti in operazioni finanziarie o in attività commerciali. Una settantina le persone finite nella rete degli strozzini: gente residente in provincia di Varese, ma anche in quelle di Bolzano, Parma, Milano, Cremona e Treviso. I prestiti oscillavano fra i 5000 e i 60.000 euro. Venivano concessi dietro la garanzia di assegni e, all’inizio, a tassi di interesse di poco superiori a quelli praticati sul mercato (già più alti rispetto a quelli permessi dalla legge). Le aliquote poi crescevano a dismisura, sino a raggiungere persino il 120% annuo. Chi tentennava, chi non pagava, veniva pesantemente minacciato: il lavoro sporco era gestito da Di Martino che, come braccio destro sul campo, utilizzava un giovane albanese. L’opera di intimidazione era così efficace che molti imprenditori finiti sotto ricatto, piuttosto che denunciare chi li stava mandando alla rovina, hanno preferito dichiarare il falso alle forze dell’ordine: con la conseguenza di finire anche loro accusati di favoreggiamento. In diversi casi gli imprenditori taglieggiati erano stati costretti a cedere alla gang la loro attività. Una volta acquisite le imprese, gli usurai le utilizzavano come paravento dietro il quale nascondere attività poco pulite, oppure le mandavano a picco con bancarotte fraudolente.
L’organizzazione era talmente bene oliata che gli affari fiorivano anche quando i capi si trovavano in carcere per altri reati. In quei periodi erano la moglie e il figlio di Di Martino a tenere le redini: la donna si occupava della gestione del business, il giovane provvedeva alle operazioni di recupero dei crediti.
L’indagine era partita l’8 settembre 2006 dopo una rapina alla tabaccheria “Da Mara” di Azzate. Erano state portate via per lo più ricariche telefoniche. Gli investigatori avevano individuato in Di Martino il basista del colpo. Gli sviluppi avevano poi permesso di accertare che Di Martino e gli altri complici fornivano assistenza e supporto logistico al clan D’Alessandro per le rapine compiute nel Nord Italia. Nel corso dell’inchiesta, dal novembre 2006 ad oggi sono stati eseguiti 21 arresti.
Le indagini sono state coordinate dal sostituto procuratore Tiziano Masini. Per il procuratore capo Maurizio Grigo, i risultati sono l’ennesima conferma delle pesanti infiltrazioni della criminalità organizzata in provincia di Varese.

s.bartolini

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