Abolire o non abolire le gite scolastiche, questo è il dilemma. Fosse così semplice. Da una parte, chi può costringere un professore a caricarsi della responsabilità di accompagnare dei ragazzi in trasferta? Perché è difficile, è rischioso e pericoloso, il mondo sta cambiando e con esso anche i suoi giovani. Dall’altra parte però, perché privare tutti quanti i ragazzi di uno dei primi momenti di libertà e di vera conoscenza della loro vita? Anche in questo caso,
effettivamente, la ragione sta da entrambe le parti. E noi ci ritroviamo spesso ad affrontare queste vicende post-factum, a misfatto avvenuto, quando sembra ormai definitivo trovarsi dinanzi ad un bivio: abolire o no? Bianco o nero? Proviamo un po’ ad evadere da questo aut-aut. Chi scrive, dalla scuola superiore ci è uscito poco più di sei anni fa. Ed è vero, non si possono non ricordare le gite scolastiche come i primi veri momenti di evasione, di libertà e di divertimento. Allo stesso tempo però erano un’assunzione di responsabilità. Perché dovevi dimostrare prima a te stesso, poi ai tuoi genitori e ai tuoi compagni, di saperti gestire in quei quattro giorni scarsi fuori casa. Con una tremenda voglia di crescere e anche di imparare. Però c’è il ragazzo che non lo fa, che se ne infischia, che abusa della sua libertà quasi fosse un diritto acquisito. Esiste una soluzione definitiva a questo? Probabilmente no. In prima persona, ricordo il disgusto, il sincero disgusto, quando in un ristorante di Berlino vidi dei ragazzi italiani distruggere posate, bicchieri e tovaglie per protestare contro la cena poco gradita. Forse questa società ha fallito proprio qui, quando scopre di non aver insegnato il rispetto dei limiti. Perché la mia libertà inizia quando termina quella degli altri, ed è mio dovere non invadere. E ci sarà sempre il somaro che lo farà. George Bernard Shaw disse che «la responsabilità è come la libertà, ed è per questo che molti la temono». È vero, la gita è un bel momento, di aggregazione, di piacere, di divertimento ma soprattutto di apprendimento. Ma fa paura. Fa paura proprio perché la consideriamo solo una gita e non più un viaggio d’istruzione, come dovrebbe essere. Non può e non deve essere solo una gita. No, non si possono abolire i viaggi d’istruzione: una scuola verrebbe meno ai suoi doveri di insegnamento, che non sono confinati nella ligia osservazione di un programma didattico, nelle verifiche e nelle interrogazioni. L’insegnamento crea tutte le altre professioni, è educativo ancor prima che didattico ed è per questo che è difficilissimo. Però vietare i viaggi d’istruzione sarebbe un passo indietro gravissimo, quando invece servirebbe andare avanti. Sarebbe come bollare come marcia e senza speranza una generazione che invece non lo è. Probabilmente però, servirebbe un’alternativa al classico viaggio. Sotto questo aspetto, va considerato con attenzione lo spunto di Cesare Catà, che in un articolo apparso sull’Huffington Post propone una soluzione diversa, ossia «pensare ad un periodo dell’anno scolastico in cui le lezioni vengano svolte all’estero in un’altra lingua presso un istituto ospitante. Due settimane, al termine delle quali gli studenti, suddivisi a gruppi in varie classi, sostengono un piccolo esame e ottengono un attestato. Nel periodo di soggiorno, la scolaresca svolge una serie di iniziative culturali e ricreative volte a mettere in contatto gli studenti ospiti con la realtà socio-culturale della città ospitante». Non la vacanza studio di fine anno, quindi, ma un vero e proprio viaggio istruttivo, una sorta di mini Erasmus, che permetta ai ragazzi di divertirsi, di guardare, di conoscere, di parlare un’altra lingua. Funzionerebbe? Chi lo sa.