Quando è una barca a costruire ponti tra le persone. Un’immagine bella ed evocativa. E proprio per questo è stata scelta la barca come simbolo della comunicazione tra persone con storie e culture diverse, che oggi si trovano davanti alla principale sfida globale dei nostri tempi: l’integrazione.
Ieri, il 10 dicembre, ricorreva l’anniversario della Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Una giornata dall’elevato valore simbolica, scelta dalla Cooperativa Ballafon, che da dieci anni opera sul territorio varesino, dando assistenza e favorendo l’inserimento dei migranti nel tessuto sociale.
In particolare «creando quella comunicazione con le persone, con la nostra società, per fare in modo che chi arriva non si senta isolato e possa quindi diventare parte attiva della comunità».
Il “movimento delle barchette” nasce a Varese, che diventa culla di integrazione. E da qui poi approderà, nelle prossime settimane, anche a Milano. L’obiettivo della Cooperativa Ballafon è quello di inserire i nuovi arrivati nella comunità, evitando i fattori di emarginazione. Il lavoro di inserimento e integrazione non può essere fatto rimanendo “nascosti”, lontano dal cuore pulsante e vivo della città.
E proprio per questo nella giornata di ieri Thierry Dieng, rappresentante della cooperativa e storico attivista per i diritti dei migranti a Varese,
sia con il Coordinamento Migrante che con l’associazione Ubuntu, ha distribuito, insieme ai ragazzi assistiti, centinaia di barchette di carta, realizzate dagli stessi migranti, con la scritta “Siamo tutti sulla stessa barca” da un lato, e il testo dell’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948. Ad accompagnare Thierry c’erano Habib Ur Rehman, da un anno e mezzo in Italia, proveniente dal Pakistan. La sua storia è quella di un 29enne che è dovuto fuggire, spinto dai genitori, che si sono indebitati nel loro Paese e si sono ritrovati in cattive acque, con rischio per l’incolumità di tutti i membri della famiglia. «Loro sono anziani, non potevano andarsene. Hanno voluto che io andassi via per cercare una vita migliore». Dal Pakistan alla Turchia Habib se l’è fatta a piedi, in un mese di cammino. Poi un passaggio in barca verso la Grecia, dove ha incontrato un’altra persone, diretta in Germania, che l’ha aiutato ad attraversare i Balcani, con un trasporto su un camion. Dove tutti erano stipati come animali, come accade in questi viaggi verso la speranza.
Sunaro Mustafà, 18 appena, e Sidibe Ismael, 24 anni, invece vengono dalla Costa d’Avorio. Sono in Italia da appena quattro mesi. Ismael è dovuto fuggire perché era stato accusato di stregoneria, dopo che il mercato dove lavorava era andato a fuoco. Se non fosse fuggito, avrebbe potuto essere ucciso. Il loro viaggio è stato più duro, perché una volta arrivati in Libia sono stati “consegnati” dagli stessi autisti, che si erano fatti pagare per trasportarli, in una prigione privata. Perché in Libri ci sono le prigioni private, dei veri e propri centri di traffico e sfruttamento umano, spiega Dieng, dove gli africani per uscire devono pagare alti “riscatti”, oppure autoriscattarsi lavorando. Molti scelgono di lavorare e riescono, in alcuni casi, a fuggire, come nel caso di Ismael. Quindi il viaggio in gommone fino alle nostre coste, stipati in almeno 130 in un’unica imbarcazione. E oggi l’inizio di una nuova vita.