«Varese deve tornare la “Città giardino”. Profughi: sbaglia la società, non la Lega»

Il grande giornalista varesino Marco Dal Fior ci parla a cuore aperto: della nostra storia, di sé stesso.«Conosco bene Maroni. Ai funerali di mio figlio venne senza scorta e mi abbracciò: gli voglio bene»

– Le porte di legno, le lampade di ottone e soprattutto quel tavolo imponente attorno al quale si sono raccolte tutte le grandi firme del giornalismo italiano: la sala Luigi Albertini del Corriere della Sera viene visitata da migliaia di ragazzi italiani, emozionati di entrare in un tempio della cultura e della scrittura. Marco Dal Fior l’ha frequentata per anni, partecipando alle riunioni che, alle 11 e alle 18 di ogni giorno, stabilivano la gerarchizzazione delle notizie dell’autorevole quotidiano di via Solferino. Ora il famoso cronista varesino è in pensione e i suoi editoriali impreziosiscono le nostre prime pagine. Lo abbiamo incontrato per parlare della sua e nostra città.

Io me ne sono andato via per i fatti miei, senza chiedere consigli. Per la verità, i primissimi passi nel mondo dell’informazione li ho mossi in città, a Radio Varese, quando frequentavo Medicina.

Mi sono iscritto alla facoltà perché volevo diventare psicanalista e all’epoca bisognava essere laureati in Medicina per farlo. In realtà non mi sono mai laureato.

Al quinto anno dovevo decidere la materia per la tesi e avevo scelto radiologia. Il mio professore si chiamava Tenti, aveva la cattedra a Pavia ed era primario a Varese. Un giorno lo raggiunsi nei sotterranei dell’ospedale di Circolo, dove aveva gli studi, proprio sotto la sede del Pronto Soccorso, e mi fece vedere un’immagine sulla lavagna luminosa chiedendomi di commentarla. Io rimasi un po’ spaesato e poi lui mi disse: «Vedi, quelle sono cellule cancerogene di una ragazza di vent’anni

che ha un tumore all’intestino già in fase avanzata». Rimasi scioccato e iniziai a pormi delle domande: “Io sarei in grado di comunicare a questa giovane la sua malattia? E con che coraggio potrei dirle che la medicina non può salvarla?”. All’epoca infatti il cancro era molto difficile da curare. Fu così che misi in dubbio il mio futuro da medico: non accantonai immediatamente i libri ma la voglia di laurearmi si era spenta. Mentre stavo muovendo i primi passi negli studi di Radio Varese.

Mi proposi per curare una rubrica sui canti popolari, in particolare quelli milanesi dei Gufi e di Nanni Svampa, che aveva appena pubblicato un’antologia con le incisioni più significative del genere. L’idea piacque a Sergio Lovisolo, il “Prof” che era il vero motore degli studi: mi chiese se sapevo usare il mixer, gli risposi di no e allora mi mise di fianco Roberto Maroni che ebbe modo così di sdebitarsi perché io qualche anno prima gli avevo fatto da istruttore di vela.