È la sera dei cani che parlano tra di loro, della luna che sta per cadere e la gente corre nelle piazze per andare a vedere questa sera così dolce che si potrebbe bere, da passare in centomila stadio. Una sera così strana e profonda che lo dice anche la radio, anzi la manda in onda, tanto nera da sporcare le lenzuola. È l’ora dei Miracoli che mi confonde, mi sembra di sentire il rumore sulle onde.
Lontano una luce diventa sempre più grande, nella notte che sta per finire e la nave che fa ritorno per portarci a dormire.
È la sera dei Miracoli di Lucio Dalla. Oppure, come dice Giorgetti citando il più bel libro mai scritto sui biancorossi: «Miracolo (Miracoli) a Varese». È la squadra che vorremmo sempre vedere. C’è un’identità. Un’idea. Un gioco. E il marchio di fabbrica di Bettinelli: quando prendi una sberla che lascerebbe al tappeto chiunque come l’1-1 su un’azione nata dal nulla per un disastro arbitrale, giochi come se nulla fosse.
L’allenatore ha lavorato sulla testa dei giocatori: Falcone tre anni fa non sarebbe mai sceso in campo, Lupoli nella scorsa stagione era stato mandato a fare il fuoriquota in Primavera, Miracoli giocava nella FeralpiSalò (anche se il Betti aveva obbligato Filippo Brusa a metterlo titolare nei probabili undici della Gazzetta a inizio stagione), Neto e Corti erano stati messi da parte con Gautieri, Scapinello-Luoni-Barberis se ci sono vengono fatti giocare e non perché non c’è scelta ma perché sono sullo stesso piano dei senatori. Guarda i giocatori con gli stessi occhi dal primo all’ultimo: è la forza di Stefano Bettinelli.
E poi c’è la forza di una presenza lieve ma rassicurante: ti giri, vedi Spartaco Landini e puoi andare in guerra con il suo silenzio-assenso che ti fa sentire più forte di quello che sei. Anche ieri il primo abbraccio dopo la partita, i primi occhi che si sono cercati sono stati i loro: Spartaco e Stefano. Il direttore sportivo è la figura che mancava al Varese perché sa di calcio, perché conosce un attimo primo di tutti gli altri quello che sta per succedere. In spogliatoio, in campo, in settimana. Ti dà piacere, libertà, convinzione. Convince senza prevaricare.
Due parole sul Modena ci vogliono: non è la squadra per cui pagare il biglietto e andare allo stadio per l’atteggiamento (rinunciatario), per il gioco (ruvido e speculativo) e perché si aggrappa a tutto tranne che alla gioia di giocare a pallone. Matteo Gaeta, che allena i sui ragazzi di 12 anni al Bosto, non li farebbe mai giocare così: perché senza fantasia e libertà cancelli il bello di questo sport.
Il Varese può andare a Catania sicuro di vincere, perdere o pareggiare ma ancora più sicuro che la prestazione ci sarà. Che ci proverà. Che può fare male. Sannino-Bettinelli? Il nostro bel passato contro il futuro.