Varese non sa più cucire Ago e filo sono made in China

VARESE La “sartina” che sa far l’orlo al pantalone, cambiare i bottoni, stringere o allargare la gonna. Una volta ce n’era una in ogni famiglia. Oggi a Varese è un’artigiana cinese, oppure dell’Est Europa o, ancora, africana. Perché di italiane è sempre più difficile trovarne: un lavoro impegnativo, con pochi guadagni, ma soprattutto che poche donne sanno ancora fare.
E non è un caso, così, che molti clienti oggi si affidino per le loro riparazioni alla «Sartoria

di Simona» delle Corti, che a dispetto del nome è un’attività cinese. «L’abbiamo chiamata “Simona” perché è più semplice da ricordare – spiega la sarta – siamo aperti da 3 anni, abbiamo tanti clienti». Prezzi bassi e riparazioni veloci («orli al momento» recita l’insegna): ecco il segreto del successo. Fotografia dei tempi che cambiano: le ditte individuali cinesi dal 2000 a fine 2009 sono cresciute del 348% in provincia di Varese. E in Lombardia, rivela una ricerca della Camera di Commercio di Milano, dopo il commercio (21% delle iscrizioni di imprese individuali cinesi nei primi due mesi del 2010), i bar (17%), i centri benessere (8%) e i parrucchieri (6%), le scelte degli imprenditori d’oriente si orientano proprio verso le sartorie, che rappresentano il 5%. Quasi mai veri laboratori, più che altro stanze con macchina da cucire, spolette e un camerino. Una nuova “moda” che in realtà non è solo cinese: tra delle attività ormai storiche in città c’è la «Riparazioni Sartoriali Nikla», vicino al tribunale, di un’imprenditrice albanese: «È un lavoro difficile, poche persone lo sanno fare bene – spiega – ho imparato in una ditta ma avevo studiato anche in Albania». E in via Magenta, all’occorrenza si trova una sarta africana.
Una tradizione artigiana recuperata dagli stranieri? «In realtà non abbiamo veri e propri artigiani iscritti come “attività di riparazione sartoriale”, gli artigiani di solito hanno laboratori, piccoli ricamifici, confezioni – dice Roberta Tajè, direttore di Cna Varese – per la sartoria vera e propria, cioè quella di alta qualità, non si può parlare di sostituzione straniera ad attività italiane. Per le piccole riparazioni invece bisogna capire se si tratti di questo oppure di iniziative nuove». Non ha dubbi Giuseppina Fatone, la prima sarta ad aver aperto un centro di riparazioni a Varese 11 anni fa, il «Jolly del Cucito» di via Walder: «C’è il rischio che quest’arte si perda, ma la colpa è degli italiani, che non vogliono più fare un lavoro “umile”, impegnativo, con un piccolo margine di guadagno, a cui non viene nemmeno in aiuto la scuola, dove non si insegna più. I clienti, poi, vogliono spendere il meno possibile, ma magari non guardano la qualità. Così arrivano i cinesi, che con i loro prezzi rovinano il mercato. Senza contare le donne che lavorano in nero, a casa propria».
Stesso parere da «Mandica», pregiata sartoria di via Bainsizza che da 42 anni crea abiti su misura da uomo e fa riparazioni per le boutique: «Gli italiani, questo lavoro non lo vogliano più fare: quando cercavamo personale abbiamo fatto tanta fatica a trovare persone in grado di svolgerlo».
Piero Orlando

s.bartolini

© riproduzione riservata