Ogni giorno circa 50 chilogrammi di pesce pescato nel lago di Varese vengono bruciati. Letteralmente. Pesci gatto, scardole, carassi e soprattutto tanti gamberi dalla Louisiana non sono degni di essere commercializzati e di finire sulle tavole, così vanno incontro all’unico destino per loro previsto: lo smaltimento.
Tale è ormai da sempre la politica adottata dalla Società cooperativa che gestisce la pesca nello specchio cittadino, attività ormai ad appannaggio di pochissimi individui.
Pescatori come Giancarlo Zanetti di Gavirate sono gli ultimi reduci a gettare le reti alla ricerca dei frutti del lago: ogni volta che le ritirano in superficie, in mezzo a qualche tinca e a sporadiche alborelle («non più del 6-7% di ogni tornata») trovano quantità immani di queste specie non autoctone, proliferate nel bacino per le più svariate ragioni.
Questi esemplari – proprio per la massiccia presenza – insidiano i relativi pesci “buoni” rimasti. Ributtarli in acqua è dunque impossibile: la loro eliminazione è necessaria.«Vivono sul fondo, in mezzo al fango, non hanno un buon sapore» racconta Zanetti. Dall’Azienda sanitaria locale, però, ne confermano l’ipotetica commestibilità.
«Dagli esami fatti anche recentemente – spiega Antonio Ansaldo, del Dipartimento di prevenzione veterinaria – non emerge nessuna problematica. La questione delle alghe “rosse”, che non consentono la balneabilità del lago, non influisce invece su qualunque specie lo abiti».
E c’è anche chi effettivamente li gradisce nella propria cucina, basta fare una rapida ricerca su Google per trovare ricette ed intingoli. Lo sa bene anche l’ex assessore provinciale all’Agricoltura e alla Gestione Faunistica Bruno Specchiarelli, che in passato aveva provato a percorrere strade diverse per la gestione di questi “pesci di serie b”: «Il tentativo era di favorirne la lavorazione e di trovare quindi uno sbocco sul mercato – spiega – Era stato anche programmato un accordo per il loro conferimento ai Mercati Generali di Milano, ma non è andato a buon fine».
Le ragioni sono presto scritte: manca personale che se ne occupi, a cominciare dai pescatori, il cui numero, nella nostra zona, non supera quello delle dita di una mano; non ci sono addetti disposti a sviluppare questo tipo di commercio.
«Sono pesci poveri, valgono 50 centesimi al chilo – continua Specchiarelli – Hanno scarsa resa perché pieni di lische: per pulirne una decina ci si può impiegare un’intera mattinata». E gli emuli di San Pietro rimasti nei pressi delle rive cittadine non hanno alcun interesse a sprecare il tempo in queste faccende: preferiscono pagare per smaltirli, sebbene si vociferino trattative per un futuro accordo con una società che li trasformerebbe in mangime. La morale è che, a due passi da noi, c’è un lago pescoso che non serve più a molto, neanche per i poveri.
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