È tornato, dicono tutti: i muri, le magliette, i cuori. Noi non siam mica tanto d’accordo: Gianmarco Pozzecco non è tornato a Varese perché lui, da Varese, in realtà non se n’è mai andato. Era solo questione di tempo, e pure i sampietrini di corso Matteotti lo sapevano, che quel cerchio si sarebbe chiuso. Un cerchio fatto di stelle strappate dal cielo e regalate alla città, di lacrime e addii mai consumati: di tanti capitoli diversi in una storia ancora da finire, in un libro ancora da scrivere. Pozzecco è venuto a trovarci in redazione accompagnato dalla fidanzata Tania: mica per un’intervista (ne son già uscite tante) e nemmeno per parlare di Cimberio (è presto, ancora). E allora? Un gioco, fatto di domande di petto e risposte di cuore. Eccole.
Non ho mai tenuto dentro le emozioni: ho solo cambiato il modo di buttarle fuori. Prima urlavo o facevo lo scemo, oggi capita che mi commuova.
Per la famiglia Castiglioni. E sia chiaro, io non voglio entrare nel merito di quel che è successo, di quello che succederà. Mi fermo al lato umano. Poco fa ho incrociato la Santa, moglie di Gianfranco: mi ha abbracciato e si è messa a piangere, e vederla così mi ha fatto male.
Perché io non dimentico quello che i Castiglioni hanno fatto per me, quello che Gianfranco ha fatto per me. L’umanità con la quale sono sempre stato trattato, i gesti spontanei con cui a modo suo mi ha dimostrato un affetto da padre.
Ultimo anno a Varese, ero giù di corda perché mi avevano diagnosticato un principio di ernia. Lui mi vide mogio, mi prese da parte e mi disse in dialetto: “Và, và sù a Montecarlo dù o tri di cun la murusa”. E mi infilò in tasca le chiavi della sua Ferrari. E io mi feci tre giorni a Montecarlo con Maurizia, la mia fidanzata dell’epoca.
La settimana di allenamenti a Chicago, nella palestra dove si allenava Jordan. Già il fatto di giocare lì era qualcosa di incredibile. Poi, arrivò Michael.
Eravamo lì a giocare un cinque contro cinque, e a un certo punto vedo con la coda dell’occhio uno che si mette a tirare nella metà di campo rimasta libera. Succede sempre così, nei campetti: giochi, e arriva qualche rompicoglioni che tira dall’altra parte.
Mi incazzo, vado dall’altra parte e sto per mandarlo a quel paese. Mi fermo giusto in tempo.
Era Jordan, sì.
Ci ha mai parlato, con Michael?
In realtà, no. Però ho assistito a una scena pazzesca. Jordan è uno che scommette su tutto, ma su tutto davvero. Sono seduto in panchina a cambiarmi, e in campo c’è Jamal Crawford, un play che poi ha avuto una bella carriera in Nba e oggi è ai Clippers. Arriva Jordan e gli propone una sfida: cinque tiri da tre a testa, in palio mille dollari.
Jordan. Che poi va da Crawford e gli fa: “Ascolta, adesso abbiamo scherzato: giochiamocene cinquemila di dollari”. Ok: via alla sfida, e vince Crawford. Ma non è mica finita.
Ma va. Jordan insiste: “Jamal, con che macchina sei venuto qui?”. Crawford aveva una Mercedes ML, uno di quei macchinoni enormi con le ruote giganti che piacciono un sacco ai neri americani, alla quale aveva fatto applicare una targa di metallo con il suo nome . “Con la mia Mercedes” gli risponde. E Jordan: “Io in Ferrari: ce le giochiamo?”. Crawford ci pensa un po’ su, poi accetta.
Secondo voi, chi ha vinto? Jordan non sbaglia un colpo, poi senza dire nulla chiama un inserviente e si fa dare un cacciavite. Esce nel parcheggio, e stacca la targa con la scritta Jamal Crawford dalla Mercedes: si fa dare le chiavi, e se ne va.
Altri tempi: però in quella Summer League mi sono divertito un sacco. Giocavo con la maglia dei Raptors, e non ci misi molto a conquistare la gente che veniva a vederci.
Ricordo che nell’ultima partita mentre vado in penetrazione mi prendo una legnata sul braccio, e l’arbitro non fischia nulla. Mi incazzo, protesto, e l’allenatore avversario con fare spocchioso mi grida in faccia “Taci, questa è la Nba”. Come a dire: italiano, tornatene a casa.
Azione successiva, piazzo un arresto e tiro da otto metri: ciuff. Allora vado da quel coach sventolandogli davanti alla faccia le tre dita e gli urlo: “Questa vale tre punti anche qui?”. Ovazione.
Ragiona ancora con la testa del giocatore: i ragazzi si trovano davanti uno che ha le stesse emozioni e le stesse paure. E che ha già fatto tutte le cazzate che fanno loro.
Toto Bulgheroni, che ha appena compiuto gli anni: gli devo tanto, tantissimo.
La prima sarà per Chicco Ravaglia: uno che il basket non ricorda come lui meriterebbe. E probabilmente saranno per lui anche tutte quelle che seguiranno.
© riproduzione riservata