VIAREGGIO «Chiedete sicurezza. Non fermatevi. Perché nessun incidente può essere sottovalutato quando di mezzo ci sono i cargo e le merci pericolose. Anche a Viareggio ci hanno sempre detto di stare tranquilli». Dalla città della Versilia, dove i treni fanno ancora paura, i familiari delle vittime della strage del treno merci si rivolgono direttamente a Luino e Laveno.
A chi vive a ridosso della Bellinzona – Gallarate. Perché anche se il treno è il mezzo di trasporto più
sicuro per le sostanze pericolose, le statistiche passano in secondo piano rispetto alla paura, ai sentimenti e i ricordi.
A Viareggio, il deragliamento, l’esplosione e il fuoco hanno spazzato via tutto. Vite, progetti, sogni. Come quelli di Emanuela, una ragazza di 21 anni, morta dopo 40 giorni di atroci sofferenze. E delle altre 31 persone che, con lei, hanno perso la vita per le conseguenze del disastro ferroviario del 29 giugno 2009. Causato dal treno merci 50325 Trecate – Gricignano, carico di Gpl. Ora Emanuela e gli altri vivono ne «Il mondo che vorrei», l’associazione che raccoglie i familiari delle vittime di Viareggio. La guida Daniela Rombi, la mamma di Emanuela. Che insieme agli amici di «Assemblea 29 giugno» da quel maledetto giorno è impegnata per la sicurezza del trasporto ferroviario. Anche attraverso la raccolta e lo studio dei dati sugli incidenti ai cargo di tutta Italia. Compresi quella della Bellinzona-Luino-Gallarate. Archivia Daniela, si informa. Organizza convegni. Senza sosta. «C’è stato un solo momento – racconta – in cui mi è mancato il fiato. È stato quando ho incontrato Alberto Chiovelli, direttore dell’Agenzia Nazionale per la Sicurezza delle Ferrovie. Gli ho chiesto se quell’incidente si poteva evitare e mi ha risposto che, sì, si poteva evitare. Si poteva evitare che mia figlia e tanti altri morissero».
È stato un attimo. Poi la volontà è riemersa. Indomabile. «Perché anche l’ultimo incidente di Laveno – spiega – dimostra che la strada per la sicurezza è ancora lunga». Lei, «Il mondo che vorrei» e «Assemblea 29 giugno» non hanno però intenzione di fermarsi. «Mia figlia e gli altri 31 morti – spiega – non torneranno più a casa. Però posso giurare, su quella figlia che ho perso, che il solo pensiero che possa ancora accadere qualcosa di simile mi fa contorcere lo stomaco. Noi lottiamo per migliorare le cose. Perché quello che è successo non si ripeta mai più. Ma il rischio è ancora altissimo». Per questo è importante muoversi. Alzare la voce. «Tutti dobbiamo chiedere più garanzie. È il minimo. Non è possibile essere ancora in pericolo dove ci sono queste linee. Bisogna rendersene conto – aggiunge – prima che sia troppo tardi. Anche a Viareggio prima della strage c’erano stati incidenti senza conseguenze. E ci dicevano che tutto era a posto. Invece c’erano delle bombe pronte ad esplodere». Come poi è avvenuto. «Chi ha il dovere di fare qualcosa – spera – deve capire quello che il Signore ci sta scansando tutti i giorni. Perché le leggi ci sono, così come i regolamenti e le procedure. Devono solo essere applicati. Senza sconti o deroghe». Senza risparmi, soprattutto nel settore della prevenzione e della sicurezza. «Perché chi è responsabile di Viareggio – conclude – probabilmente ha messo a posto i suoi bilanci. Ma ha ucciso mia figlia».
b.melazzini
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