Il fatto è che adesso la palla a due è qui: par già di vederla e di poterla toccare, par già di sentire i profumi che riempiranno l’aria, par già di sentire il cuore che batte più forte del normale. Come un martello, su nella gola: tum, tum, tum.
Per settimane s’è vissuto d’emozioni, e quelle emozioni c’erano bastate: ora si gioca, e il fatto che si giochi contro Cantù non fa che rendere tutto più drammaticamente bello. E adesso ci siamo: adesso, caro Poz, il ballo comincia per davvero.
È sempre stata lì, nella mia testa: come qualcosa che sapevo sarebbe arrivato, prima o poi. Ho cercato di immaginarmela tante volte finché ho capito che dovevo smetterla: perché pur sforzandomi non sarei mai riuscito a visualizzarla in tutta la sua bellezza. Non sono mica un artista.
Ora dirò delle cose scontate e banali. Dirò che in campo ci vanno i giocatori, che i protagonisti sono loro, che ora conta solo vincere.
Cazzate. Saranno sensazioni forti, sarà pelle d’oca e sarà commozione da nascondere. E sapete qual è il bello?
Che tutte queste sensazioni non le vivrò da solo. Perché io lo so che in quel preciso istante in cui mi verrà da piangere starà venendo da piangere ad altre mille, duemila persone. Lo so che sarà particolare per tanta gente e consentitemelo: tutto questo è meraviglioso. Uno sportivo è l’uomo più fortunato del mondo, non tanto per i soldi o le belle donne: no. È il più fortunato perché ha tra le mani il potere più bello che possa capitare a una persona: quello di rendere felici le altre persone. Per cui questo derby lo viviamo insieme, tutti.
Ci ha pensato il Cecco, a parlare: e, fidatevi, ha usato le parole giuste. Ha fatto capire a tutti che questa non è una settimana normale, che quella di domenica non sarà una partita normale. Ha fatto capire quello che si devono aspettare.
Sì: preferirei giocarla questa partita, perché da giocatore certe tensioni si sfogano prima e si sfogano meglio. Starò in panchina, convinto che i miei ragazzi faranno tutto quello che devono per regalarsi, regalarmi e regalarvi questa vittoria.
Sono clamorosamente soddisfatto di quello che siamo riusciti a diventare: come gruppo, come squadra, come uomini. Certo, avrei preferito allenarmi con più continuità e senza infortuni: ma non cambierei nulla di quello che è stato.
No, e sapete perché? Perché non ho mai avuto paura, nemmeno per un attimo. Qui mi sento protetto, e questa cosa mi fa stare bene: perché la gente che mi sta attorno mi permette di vivere quest’avventura con l’entusiasmo che merita.
Il Cecco. Ero a Capo d’Orlando con la squadra ed stavamo andando dal fisioterapista, ero incasinato: quindi risposi ma gli dissi “Non posso, ti richiamo”. E lui, con una voce strana, replicò: “Sì, però chiamami”. Io in quel momento capii tutto: la razionalità mi diceva che non era possibile, ma una vocina insistente ripeteva il contrario. Ripeteva che mi aveva chiamato per riportarmi a Varese.
Perché credevo che io e il Cecco fossimo troppo diversi, che avessimo idee differenti su quasi tutto, che io fossi l’ultima persona che avrebbe chiamato per allenare la sua squadra.
E invece ora sto scoprendo un mondo diverso: sto scoprendo che siamo simili, se rapportati al mondo esterno. E che abbiamo in comune pensieri e idee che non sospettavamo di avere.
Entrambi abbiamo una venerazione vera e sincera per Dodo Rusconi e il suo basket. Perché lui le squadre sapeva farle giocare bene, sapeva tirare fuori quelle due o tre cose che cambiavano la vita. Parliamo spesso di lui, durante gli allenamenti e nelle riunioni tiriamo fuori situazioni e idee che erano del Dodo.
Abbiamo avuto degli scazzi: io avevo un’età cerebrale diversa da quella attuale, e lui è fatto a modo suo. L’ho sempre detto e lo ripeto: fosse stato un po’ meno spigoloso e intransigente avrebbe avuto una carriera grandiosa, pure da allenatore.
La verità è che ero sul punto di commuovermi: se fossi andato avanti a parlare anche solo altri dieci secondi mi sarei messo a piangere. E non lo volevo. Poi, ragazzi, non va mai bene nulla: se faccio lo scemo devo stare calmo, se sto sulle mie devo fare lo scemo. Il punto è un altro.
Ci tengo, ci tengo da morire: e sento la pressione, anche se penso che sia normale. Non riesco a essere distaccato perché, ragazzi, io non sto allenando e basta: io sto allenando Varese. Qualunque allenatore del mondo sarebbe emozionato nel sedersi su questa panchina, figuratevi io che in questo palazzetto ho vissuto quello che ho vissuto. In più si parte contro Cantù: dobbiamo aggiungere altro?
Giuro che mi taglierei un mignolo, pur di vincere. Non sto scherzando, ditemi che voto fare e io lo faccio.
Bastardi. No, dai: poi ci rimette la mia fidanzata Tania della quale sono innamoratissimo. Facciamo che se vinco, subito dopo la partita mi raso a zero e quei pochi capelli che mi rimangono li tingo di rosso. Giuro.
Non me ne vogliano quelli di Cantù: perché è vero che Ravaglia ha significato tantissimo anche per loro. Ma domenica sera, Chicco mi farà vincere.
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